venerdì 21 marzo 2014

Rubrica: dalla cronaca ai mini racconti 19

Titolo di cronaca: "Città fantasma tra silenzi e speranze." 

Ho provato a sperimentarmi con una prosa didascalica, abbiate pazienza.

Questo il mini racconto ispirato: DADEMO.



Dademo è una città fantasma.
A Dademo nessun uomo è libero.
A Dademo nessun uomo è vivo.
Esiste solo Il quartiere. Quattro chilometri quadrati di terra battuta occupati da seggiole.
Nel quartiere ci siano noi.
Noi non abbiamo bisogno di sedie, eppure ce le fanno usare. Aiutano a mantenere l'ordine, dicono.
A Dademo non si replica, si ubbidisce. 
Soprattutto non si dorme e non si sogna. 

Mi hanno ucciso trentadue anni fa, insieme a molti della mia razza.Sono rinato esattamente cinque mesi dopo, pronto per essere uno schiavo. Il vantaggio d'esser morti è quello di non doversi più prendere cura del proprio corpo: non ci ammaliamo, non soffriamo, non uriniamo. Siamo braccianti attivi ventiquattro ore su ventiquattro, il meglio sul mercato. La nostra umanità è soppravvissuta, i ricordi, le emozioni, i pensieri perdurano. La volontà invece è svanita, seppellita sotto chili di carne e neuroni affranti. 
I Signori hanno sempre bisogno di terra, roccia, minerali e materia nera. Costruiscono alloggi, gioielli, oggetti su oggetti. I Signori vendono, barattano e producono. Vogliono tutto. Esistono solo per accumulare cose e conoscenze. Il loro mondo non è molto diverso da quello che era il mio, solo meno confuso. Ci hanno iniettato qualcosa di blu nelle vene e tutto in noi è diventato duro. Ci chiamano le anime di marmo, ma nessuno di noi ha un nome. Non serve. Quando non lavoriamo rimaniamo seduti, in silenzio a guardare le spalle delle spalle degli altri servi a riposo. Ciò che ci circonda è grigio, abbiamo perso i colori nella dipartita, quelli sì. La mancanza di rosso, giallo, verde, si fa sentire. Questo luogo stinto ci entra nella testa e logora i nostri sentimenti ammaccati. Io attendo una crepa, una falla nel sistema perfetto, in me. Non sono mai stato un uomo d'azione, ma ho pazienza e coraggio quanto basta: resto in attesa della mia volontà, la coltivo. Qualche giorno fa stavo scavando nelle miniere a ovest in cerca d'una vena di materia nera. Colpivo la roccia senza sosta, efficiente. Ai miei piedi cadevano pietre e cristalli. Uno di questi, grande come un dito e altrettanto lungo, era rimbalzato sullo scarpone. Mi pareva bello, luminoso e lo desideravo. Prendilo, gridavo nei miei pensieri. Lo voglio, prendilo, è solo un piccolo inutile sasso. Allunga la mano, mettilo in tasca, fallo tuo. Niente, è rimasto a terra a coprirsi di polvere. Ho usato il piccone per altre sei ore, senza sudare. Quando ho preso posto sulla mia seggiola la notte stava già svanendo. Ho desiderato chiudere gli occhi e allungare le gambe e l'ho fatto, senza sforzo. Che strano. Nessuno si è voltato a guardarmi, io sì. Una scossa simile al rumore sordo d'un tamburo mi aveva attraversato. Forse, mi dissi, la prossima volta avrei stretto tra il palmo un cristallo.
Il cambiamento iniziò dalle piccole cose. Sceglievo con cura maniacale la sedia su cui rilassarmi, perché ora mi rilassavo. Facevo ruotare il collo e osservavo il cielo plumbeo e fumoso. In tasca nascondevo decine di minuscole pietruzze e mi allacciavo gli stivali dietro alle caviglie. Avrei voluto di più. Arraffavo e seppellivo ogni cosa che mi sarebbe potuta tornare utile o che mi piacesse. Seguivo la scia dei miei impulsi e sapevo che sarei fuggito, la mia volontà si stava manifestando, morbida e lussuriosa. 
I Signori non badavano a noi anime di marmo, non chiudevano gli accessi agli scivoli e ai condotti che portavano nelle loro città. A Dademo nessuno scappava perché nessuno era vivo, così credevano. Non avevo paura d'esser ferito, i miei desideri erano tornati ma rimanevo comunque insensibile a tutto ciò che mi comportasse sofferenza o fatica. Mi avevano ricreato perfetto. Un piccone, metri di corda, una pila da testa e i miei tesori; questo avevo quando entrai nel tunnel. Era un passaggio utilizzato per trasportare la terra, c'era umido e si scivolava. Sembrava infinito. Quanto distante era la civiltà? Sentivo il bisogno d'essere altrove. Passo dopo passo ero bombardato da immagini della mia famiglia: una figlia, una moglie bionda e una casa accogliente. Rivolevo tutto. La mia poltrona in pelle, le ciabatte pelose e i pavimenti in legno. Tutto.
Camminai per ore, forse giorni, al buio. Ero avvolto da un telo corvino che pareva farsi sempre più spesso. Arrancavo. Il fango si incastrava dentro le suole e mi faceva sprofondare. Il mondo era denso e ogni passo faticoso. Ricordavo il barone di Münchhausen nelle sue imprese oniriche. Arriverò alla luna, recupererò il senno. Non c'era altro oltre me: nessun insetto, nessun animale, nessun rumore. Poi, dal nulla, una porta. Bianchissima. Una porta? L'aprii cauto, una luce abbagliante mi infiammò gli occhi. Colori, ovunque. Io ero sdraiato su un letto e attorno a me c'era una donna, un uomo in camice e una bambina vestita di rosso. Non riuscivo a parlare, che ne era stato della mia fuga?
-E' tornato? - Gracchiò la signorina imbellettata d'oro e cipria.
- Sì, è guarito. -
Il dottore mi prese il mento tra le mani e ispezionò ogni centimetro del mio viso.
- Guarito! -
- Ci saranno ricadute? -
- Lo sa, ci sono sempre col tempo. Ognuno di noi a lungo andare smette di desiderare, di accumulare, di comprare. E' il dazio della vita infinita, una noia dell'evoluzione. -
- E' terribile! Capiterà anche a me? - chiese, continuando a stuzzicare il gigantesco anello che portava all'anulare.
- Io voglio i giocattoli, madre. - si intromise la piccina. Aveva una vocina lamentosa e uno sguardo affilato e adulto.
- Appena papà starà meglio. Vedrai, ti regalerà tutto quello che vuoi. -
La donna sorrise e si lisciò le lunghe unghie smaltate sulle labbra gonfie.
Dove è finita la mia ribellione?
Tra le pieghe del mio portafoglio.
Ne ero lieto, sentivo che oltre Dademo mi aspettavano chilometri di merce da fare mia.
Ero tornato.

di Manuela Paric'

Foto di Luca Moglia

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