martedì 11 giugno 2013

Altri racconti di altri: Il vicino sul treno #9 di Paolo Marcotti

Un racconto diverso, inquietante, onirico. Uno scritto che in qualche modo mette a disagio.

#9
Il tipo è finocchio, si capisce subito. 
Ci sono quelli che si vantano di saperli individuare dal minimo indizio, quando proprio non lo diresti mai. Ecco, tranquilli, stavolta non serve la vostra consulenza, ce ne siamo accorti tutti.
Che poi è una conclusione tirata un po’ così, per sommi capi. Quali siano i suoi gusti e le sue preferenze sotto le coperte, o anche altrove, non è dato sapere. Piuttosto, i suoi movimenti, i suoi abiti e soprattutto gli accessori sono dotati di una femminilità, per così dire, accentuata. Il foulard, il mocassino di vernice, la borsetta di pelle, un’altra borsa col pranzo o quant’altro utile per la giornata, gli abbinamenti studiati certamente sin dalla sera prima, quella cadenza un po’ strascicata e petulante nel parlare. È tutto lì, a tiro sicuro di vista e udito. Il resto, è inferenza.
Qualche volta chiacchiera, quando qualche collega di fermata è disponibile. Non sempre succede, perché spesso si dorme della grossa. Tra i pendolari il sonnellino ristoratore è molto diffuso. Si recupera come si può, e spesso si finisce per considerare con disapprovazione chi disturba questa consolidata usanza. Ma non per cattiveria, per incredulità. Non vedi che dormiamo? Non ti sembra che il treno sia fatto apposta per questo? Come fai a non capire?
Romeo non è giovanissimo e si fa spiegare il funzionamento di qualche diavoleria tecnologica che possiede probabilmente a seguito di un regalo poco azzeccato, e poco gradito. Ma oggi, inaspettatamente, chiede qualcosa anche a me. E il contenuto della richiesta è del tutto inatteso. Mi spiega che, per lavoro, visita ristoranti, enoteche, agriturismi e simili. Prova, assaggia, li valuta, scrive recensioni. Oggi tocca a un posto carino, tranquillo e isolato nella campagna, ma facilmente raggiungibile. Romeo conosce già il titolare, e aggiunge, come argomento decisivo, che si può senz’altro andare in due, suoi ospiti, e che ci attende certamente un’esperienza di raffinata qualità.
Non mi sento affatto insidiato, e accetto di buon grado. 
Veniamo effettivamente accolti con tutti gli onori e fatti accomodare in un bellissimo giardino, con pochi tavoli disposti sotto ombrelloni superflui perché già così la penombra è eccessiva. Non c’è nessuno, tranne una figura maschile, sola, che dà le spalle, apparentemente molto distinta ed elegantissima, in un tavolo ancora più allo scuro del nostro. Ci viene servito un aperitivo, un vinello leggero e delizioso, e qualche piccola leccornia da stuzzicare, di sapiente fattura.
Romeo, per discutere, almeno credo, della scelta dei piatti da servire, viene chiamato in cucina dal titolare, e io rimango solo. O meglio, forse preferirei rimanere solo, perché l’altra presenza mi pare ora improvvisamente inquietante e ingombrante. 
Tento di non pensarci proseguendo con degli assaggini sempre più gradevoli, ma vengo presto interrotto. La voce dall’ombra sempre più scura, quasi buia, mi chiama e mi propone, o forse mi chiede – non capisco, inizio ad agitarmi – compagnia. E adesso no, proprio no, non ne sono lieto, perché ha proprio quel tono con cui l’orco o la strega si rivolge nelle favole ai bambini, quella finta benevolenza che nasconde progetti indicibili e delittuosi. 
Tuttavia non vedo né spazi di rifiuto né margini di trattativa, e mi sento anche un po’ irragionevole nel mio timore. Mi avvio perciò verso il suo tavolo, non troppo velocemente, perché davvero non mi va, ma nemmeno troppo lentamente, ché non voglio darlo a vedere. Mi dico mentalmente “Su, dai, muoviti, che vuoi che sia”, e ad ogni passo il piede destro non si solleva bene e trascina rumorosamente un po’ di ghiaietta. 
Purtroppo, a dispetto di un largo sorriso che vorrebbe essere rassicurante, vengo accolto da un volto che mi inquieta ben oltre ogni mio precedente pessimismo. Una sorta di mascherone raccapricciante, un incrocio tra una mostruosa gargolla, un ceffo da ritratto medievale e… non lo so. Chi più tratti orribili conosce, più ne metta. 
Mi indica con bel gesto dove devo accomodarmi e mi approccia cordialmente, ma io non posso che mettermi in punta di sedia, col corpo teso e rigido, potenzialmente pronto a scattare… ma in realtà paralizzato. Nessun segnale, un rumore vitale qualsiasi, arriva da altrove, il giardino pare essere diventato la nostra oasi privata. Un’oasi che sa un po’ troppo di trappola, però.
Mi parla, come se fossimo intimi, o forse come se non ne avesse potuto parlare con nessuno prima, della sua condizione sfavorevole, di come sia impossibile la vita con un aspetto come il suo. Eppure, rifletto io tra me e me, nonostante riesca a marchiare un’esistenza l’aspetto non è che una maschera che ci rende facilmente riconoscibili, la sostanza è altro. “Esatto, una maschera!”, riprende lui, come se avessi parlato ad alta voce, eppure sono certo di non averlo fatto. “Ma non è detto che, togliendo la maschera, sotto si trovi qualcosa di meglio”. A queste parole mi sento inspiegabilmente e irresistibilmente forzato ad alzarmi e avvicinarmi a lui, non posso opporre resistenza nonostante mi sembri evidentemente una mossa illogica e imprudente. Quando sono abbastanza vicino, mi afferra un braccio, dirige la mia mano verso il suo collo, e mi costringe, prendendola da sotto il mento, a strappargli quella che si rivela davvero essere una maschera.
Viene via come una seconda pelle e sono diviso tra un’insana curiosità di scoperta e l’esigenza di chiudere gli occhi perché tutto premonisce che non sarà nulla di gradito e di gradevole. Infatti, a poco a poco, viene alla non-luce un volto completamente informe e privo di lineamenti. Non è meglio dell’orrore precedente, anzi, è ancora più spaventoso, almeno in quelle circostanze, almeno per me. Sono terribilmente angosciato, e sono lì lì per urlare, per scappare, per farmela sotto, non lo so nemmeno io.
Allora… allora basta. Plin plon. “Prossima fermata B., stazione di fine corsa del treno”.
Romeo mi guarda beato. Innocente no, non direi, piuttosto soddisfatto… quasi consapevole del bel tiro che mi ha giocato. Resto seduto ancora qualche momento, ora non posso alzarmi. Cerco di placare il batticuore, mi tiro su sostenendomi con le mani, mi avvio per il corridoio cercando di dissimulare l’ansia. Perché mi vergogno, ma anche per auto-rassicurarmi. Adesso ho fretta, ho bisogno d’aria, premo su chi mi sta davanti, fremo. Maledizione, fate presto! Appena posso scendo. L’aria è fresca. Respiro. Mi sembrava di non farlo da tanto.

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