mercoledì 26 giugno 2013

Feste dei bimbi

Rebecca ha 4 anni. Rebecca va alla festa del suo ex asilo. Rebecca saluta le maestre. Le maestra salutano Rebecca. Rebecca ricorda le maestre. Le maestre ricordano Rebecca. Rebecca è cresciuta. Le maestre no. Rebecca si guarda intorno. Rebecca osserva i vecchi piccoli amici. Rebecca scoppia a piangere. Rebecca dice:<E' la malinconia del tempo che passa>. Rebecca ha 4 anni.


di

Manuela Paric'

martedì 25 giugno 2013

Blog Tour: Simone Lari


Intervista a Simone Lari: un autore che osa mescolare thriller e fantastico...Benvenuto!

1. Facciamo un gioco? invece della solita biografia...considerando il fatto che tu scrivi romanzi che hanno una componente fantastica... che ne dici di descriverti come se fossi un personaggio dei tuoi libri? O se preferisci inventando una mini storia su te stesso? 

In realtà la mia storia è più lunga di quanto sembri… Sono nato nel lontano 1378, ho avuto l’investitura da Cavaliere Arcano, ho combattuto contro la Nemesi dei Mondi, assistito alla fine dell’Ombra della Morte, è ho reclamato il ritorno di ciò che amavo di fronte al volto severo del Dio Sion. Poi, in tempi moderni, mi sono reincarnato, ma la mia amina si è divisa in due parti, e ha dato vita a due versioni di me totalmente opposte: da una parte sono diventato Derek, uno studente un po’ nerd, con la fissa per i romanzi epic fantasy, che ha avuto la “fortuna” di acquisire dei super poteri che hanno fatto di lui, o meglio, di me, Nameless, rendendomi possibile combattere per la giustizia, come facevo un tempo (anzi, un po’ peggio). Dall’altra parte, però, sono diventato Kage Queen, un uomo oscuro, misterioso, nella cui porzione di anima aleggia solo un misero, flebile, barlume di luce racchiuso nell’ombra. Lui ha acquisito la parte più terribile di me: la rabbia, la determinazione senza rimorso, l’influenza oscura della Perla del Potere, questo gli/mi ha conferito dei poteri paranormali. L’unica cosa buona che ha preso dal vecchio me, è l’amore per i gatti.

Io sono circondata dai gatti, probabilmente sono alieni. . .si comportano da alieni, saltano come salterebbero degli alieni. . . sicuramente stanno tramando qualcosa. . . e loro. . .ci vedono bene anche al buio, miao!

2. Quali sono i timori e le difficoltà che incontri durante la stesura di un romanzo?

Nessun timore, e grazie a valide collaboratrici, nessuna difficoltà.

Che culo! Io invece annaspo dentro ogni insicurezza.

CONTINUA A LEGGERE...

mercoledì 19 giugno 2013

Giorni difficili e facile ironia.

Certi pomeriggi sono particolarmente difficili.
Mia figlia va in bagno.
Passano 5 minuti.
E' chiaro che non è pipì.
Mi chiama per pulirla.
Vado.
Mi chino, sorrido e un mollettone rosa che mi aveva incastrato malamente tra i capelli cade nel gabinetto. Ovviamente pieno.
Ecco.
Lei urla.
Io prendo le pinze da fritto. <disgustoso>
Non posso abbandonarlo alla corrente.
Non posso.
Sembro un chirurgo.
Evito lo stronzo.
Aggancio il mollettone.
Mi muovo lentamente.
Ce l'ho quasi fatta.
Ricade, rimbalza sul "fattaccio".
Ogni cosa sembra perduta, sfaldata, distrutta.
Lei urla, ancora.
Mi odia.
Io,
odio tutte...le merde.

Blog Tour: Martina Munzittu




Oggi vi presentiamo Martina Munzittu ... una romantica donna del mistero!
BENVENUTA!

 Ciao Martina, benvenuta è un piacere ospitarti sul mio blog. Iniziamo subito...che ne dici di presentarti...ma in modo romanzato...come se fossi la protagonista di un tuo romanzo? (non rispondermi NO! hehehehe) 

Ciao Manuela e grazie a te per avermi ospitato nel tuo blog! Presentarmi in modo romanzato? Proviamoci. Quando Martina salì su quell’aereo diretto a Londra, si lasciò dietro le spalle un mondo di sole, calore, mare e amici. E mentre osservava le nuvole da quel finestrino, si chiedeva che cosa avrebbe trovato in quella terra straniera, dove non solo non parlavano l’italiano, ma neanche il sardo. In tutti i casi, aveva senso guardarsi all’indietro? No; ormai la scelta era fatta, il futuro non poteva che esser ricco di esperienze nuove e interessanti

Perfetto...ma ora ti toccherà continuare...vogliamo sapere come prosegue la storia!

Sei un'italiana che scrive in lingua inglese...come mai questa scelta? 

Ho vissuto in Inghilterra la maggior parte della mia vita da adulta, parlo l’inglese per il 90% del tempo in famiglia, a lavoro e con gli amici. Aveva molto più senso per me scrivere in inglese che in italiano. Anche perché non sono mica sicura di parlarlo bene (l’italiano, intendo). 

Incredibile...io, timidissima ed ignorante,...al massimo posso scrivere storie in cui "the cat is on the table"!!!

martedì 11 giugno 2013

Altri racconti di altri: Il vicino sul treno #9 di Paolo Marcotti

Un racconto diverso, inquietante, onirico. Uno scritto che in qualche modo mette a disagio.

#9
Il tipo è finocchio, si capisce subito. 
Ci sono quelli che si vantano di saperli individuare dal minimo indizio, quando proprio non lo diresti mai. Ecco, tranquilli, stavolta non serve la vostra consulenza, ce ne siamo accorti tutti.
Che poi è una conclusione tirata un po’ così, per sommi capi. Quali siano i suoi gusti e le sue preferenze sotto le coperte, o anche altrove, non è dato sapere. Piuttosto, i suoi movimenti, i suoi abiti e soprattutto gli accessori sono dotati di una femminilità, per così dire, accentuata. Il foulard, il mocassino di vernice, la borsetta di pelle, un’altra borsa col pranzo o quant’altro utile per la giornata, gli abbinamenti studiati certamente sin dalla sera prima, quella cadenza un po’ strascicata e petulante nel parlare. È tutto lì, a tiro sicuro di vista e udito. Il resto, è inferenza.
Qualche volta chiacchiera, quando qualche collega di fermata è disponibile. Non sempre succede, perché spesso si dorme della grossa. Tra i pendolari il sonnellino ristoratore è molto diffuso. Si recupera come si può, e spesso si finisce per considerare con disapprovazione chi disturba questa consolidata usanza. Ma non per cattiveria, per incredulità. Non vedi che dormiamo? Non ti sembra che il treno sia fatto apposta per questo? Come fai a non capire?
Romeo non è giovanissimo e si fa spiegare il funzionamento di qualche diavoleria tecnologica che possiede probabilmente a seguito di un regalo poco azzeccato, e poco gradito. Ma oggi, inaspettatamente, chiede qualcosa anche a me. E il contenuto della richiesta è del tutto inatteso. Mi spiega che, per lavoro, visita ristoranti, enoteche, agriturismi e simili. Prova, assaggia, li valuta, scrive recensioni. Oggi tocca a un posto carino, tranquillo e isolato nella campagna, ma facilmente raggiungibile. Romeo conosce già il titolare, e aggiunge, come argomento decisivo, che si può senz’altro andare in due, suoi ospiti, e che ci attende certamente un’esperienza di raffinata qualità.
Non mi sento affatto insidiato, e accetto di buon grado. 
Veniamo effettivamente accolti con tutti gli onori e fatti accomodare in un bellissimo giardino, con pochi tavoli disposti sotto ombrelloni superflui perché già così la penombra è eccessiva. Non c’è nessuno, tranne una figura maschile, sola, che dà le spalle, apparentemente molto distinta ed elegantissima, in un tavolo ancora più allo scuro del nostro. Ci viene servito un aperitivo, un vinello leggero e delizioso, e qualche piccola leccornia da stuzzicare, di sapiente fattura.
Romeo, per discutere, almeno credo, della scelta dei piatti da servire, viene chiamato in cucina dal titolare, e io rimango solo. O meglio, forse preferirei rimanere solo, perché l’altra presenza mi pare ora improvvisamente inquietante e ingombrante. 
Tento di non pensarci proseguendo con degli assaggini sempre più gradevoli, ma vengo presto interrotto. La voce dall’ombra sempre più scura, quasi buia, mi chiama e mi propone, o forse mi chiede – non capisco, inizio ad agitarmi – compagnia. E adesso no, proprio no, non ne sono lieto, perché ha proprio quel tono con cui l’orco o la strega si rivolge nelle favole ai bambini, quella finta benevolenza che nasconde progetti indicibili e delittuosi. 
Tuttavia non vedo né spazi di rifiuto né margini di trattativa, e mi sento anche un po’ irragionevole nel mio timore. Mi avvio perciò verso il suo tavolo, non troppo velocemente, perché davvero non mi va, ma nemmeno troppo lentamente, ché non voglio darlo a vedere. Mi dico mentalmente “Su, dai, muoviti, che vuoi che sia”, e ad ogni passo il piede destro non si solleva bene e trascina rumorosamente un po’ di ghiaietta. 
Purtroppo, a dispetto di un largo sorriso che vorrebbe essere rassicurante, vengo accolto da un volto che mi inquieta ben oltre ogni mio precedente pessimismo. Una sorta di mascherone raccapricciante, un incrocio tra una mostruosa gargolla, un ceffo da ritratto medievale e… non lo so. Chi più tratti orribili conosce, più ne metta. 
Mi indica con bel gesto dove devo accomodarmi e mi approccia cordialmente, ma io non posso che mettermi in punta di sedia, col corpo teso e rigido, potenzialmente pronto a scattare… ma in realtà paralizzato. Nessun segnale, un rumore vitale qualsiasi, arriva da altrove, il giardino pare essere diventato la nostra oasi privata. Un’oasi che sa un po’ troppo di trappola, però.
Mi parla, come se fossimo intimi, o forse come se non ne avesse potuto parlare con nessuno prima, della sua condizione sfavorevole, di come sia impossibile la vita con un aspetto come il suo. Eppure, rifletto io tra me e me, nonostante riesca a marchiare un’esistenza l’aspetto non è che una maschera che ci rende facilmente riconoscibili, la sostanza è altro. “Esatto, una maschera!”, riprende lui, come se avessi parlato ad alta voce, eppure sono certo di non averlo fatto. “Ma non è detto che, togliendo la maschera, sotto si trovi qualcosa di meglio”. A queste parole mi sento inspiegabilmente e irresistibilmente forzato ad alzarmi e avvicinarmi a lui, non posso opporre resistenza nonostante mi sembri evidentemente una mossa illogica e imprudente. Quando sono abbastanza vicino, mi afferra un braccio, dirige la mia mano verso il suo collo, e mi costringe, prendendola da sotto il mento, a strappargli quella che si rivela davvero essere una maschera.
Viene via come una seconda pelle e sono diviso tra un’insana curiosità di scoperta e l’esigenza di chiudere gli occhi perché tutto premonisce che non sarà nulla di gradito e di gradevole. Infatti, a poco a poco, viene alla non-luce un volto completamente informe e privo di lineamenti. Non è meglio dell’orrore precedente, anzi, è ancora più spaventoso, almeno in quelle circostanze, almeno per me. Sono terribilmente angosciato, e sono lì lì per urlare, per scappare, per farmela sotto, non lo so nemmeno io.
Allora… allora basta. Plin plon. “Prossima fermata B., stazione di fine corsa del treno”.
Romeo mi guarda beato. Innocente no, non direi, piuttosto soddisfatto… quasi consapevole del bel tiro che mi ha giocato. Resto seduto ancora qualche momento, ora non posso alzarmi. Cerco di placare il batticuore, mi tiro su sostenendomi con le mani, mi avvio per il corridoio cercando di dissimulare l’ansia. Perché mi vergogno, ma anche per auto-rassicurarmi. Adesso ho fretta, ho bisogno d’aria, premo su chi mi sta davanti, fremo. Maledizione, fate presto! Appena posso scendo. L’aria è fresca. Respiro. Mi sembrava di non farlo da tanto.

domenica 9 giugno 2013

Rubrica: dalla cronaca ai mini racconti 17

Titolo di giornale: Precipita dal balcone, è grave.

e questo il mini racconto...più desolante e meno grottesco del solito...

Tutto attorno la vita non era poi così male. Tutto attorno ma non sopra la sua testa, dentro la sua testa, fra le pieghe dei suoi pensieri, dietro i suoi desideri, sotto chili di sogni inespressi. Non c'erano nemmeno quelli, i sogni. Pesavano e basta, senza manifestarsi. Le parole, le ore, gli avvenimenti si muovevano lentamente davanti agli occhi e sotto i piedi: non riusciva a fare niente. Seduto, appoggiato con il culo grasso sul divano sperava sempre di trovarvi sotto una mina e di esplodere, deflagrare verso una nuova prospettiva: spinto, acceso. Ci provava a volte a sentirsi bene. Si alzava in piedi, evitava di guardarsi allo specchio, dilatava le pupille, allacciava le scarpe da ginnastica e si diceva pronto ad uscire. Non lo faceva, non lo faceva mai. Fuori il sole lo aveva già stancato. Allora ricordava un tempo lontano in cui l'aria sulla pelle gli dava ancora piacere senza farlo sentire imprigionato, costretto in uno spazio non suo, osservato. Ricordava un tempo lontano in cui il mondo, seppur poco, gli assomigliava. Il problema era proprio quello: non si somigliava più. Chi era? Non si era svegliato scarafaggio ma s'era evoluto, giorno dopo giorno, battito dopo battito. Che schifo. Diventato ormai altro da se capiva di non aver più alcuna facoltà di decidere, di prendere la situazione in pugno e cambiare la sua storia. Attendeva, scioccamente, desolato, attendeva lo scoppio. Il boato di una arteria spezzata, il silenzio di un cuore arrestato, la fine. Le persone gli gravitavano attorno più simili a fuochi fatui che a vere comparse e lui rispondeva da grande attore, si faceva corporeo e si palesava, in quel banale intreccio di sorrisi e lamentele richiesto dal bon-ton dell'esistenza. Così, quando in un ultimo atto di coraggio prese il volo dal quinto piano, tutti pensarono ad una perdita momentanea di coscienza, ad un inciampo. Che pena. "Date almeno i miei resti al cane", questo pensò cadendo, proprio questo.

di Manuela Paric'

sabato 8 giugno 2013

Rubrica: dalla cronaca ai mini racconti 16

Titolo di giornale: Cadavere di donna rinvenuto in mare.

ed ecco il mini-racconto inerente:

Ogni coscia pesava 50 kg, tutto il resto meno, soprattutto il cervello, dicevano. Attaccata al mento, unta e rossiccia si allungava una barbetta incerta. I pori erano grossi e lui sudava anche solo a pensare. Molto. Dalle narici usciva aria calda e densa, come un animale da stalla, le usava per sottolineare i vari stati del suo umore. Il colore degli occhi non aveva importanza: li teneva stretti e meschini. Quasi nessuno lo aveva mai sentito parlare. Il fatto che avesse undici anni, credevano in molti, lo salvava dalla galera ma lo esponeva in modo crudele alle brutture della vita, di cui lui - certamente - faceva già parte da un pezzo, il pezzo forte.
La madre, una donnina poco più grande di un suo polpaccio, lavorava 20 ore al giorno, si lavava poco e dormiva solo per sopravvivere. Come aveva potuto partorire una tale anomalia? Questo e solo questo si chiedeva la gente ogni qual volta la notava trascinarsi stanca verso casa. Come aveva potuto? La realtà era cosa semplice: il destino di Gigio il gigante era già scritto nel suo profilo tondo, nei suoi calli prematuri e nei pensieri altrui. Sarebbe diventato un mostro, uno di quelli che ammazzano per divertimento, che ti schiacciano come si fa coi ragni. La maestra a scuola nemmeno lo interrogava tanto era convinta del suo futuro. I bambini invece, quando serviva, lo mettevano in porta, lì era una sicurezza: faceva ombra come un baobab e niente e nessuno passava, né giocatori, né pallone, né insulti.
Gigio il gigante viveva la sua esistenza scivolando, senza grazia, sul tempo: era quello che era e tanto gli bastava. Si preparava da mangiare, si lavava i vestiti e si augurava la buona notte. Controllava che la madre respirasse e quando tutto era fermo si dedicava a se stesso: costruiva aeroplanini di carta. Ne faceva di enormi, di veloci, di colorati, di incostanti. Li calcolava tutti, li disegnava, li progettava. Aveva un quadernetto pieno zeppo di numeri e note sull'aerodinamica. Volava, Gigio il gigante sulle coscione mai stanche della sua fantasia. Era pur sempre un bambino e quello gli era rimasto: il volo. Ciò che non sapeva è che i sogni, a volte, fan brutti scherzi, proprio come le persone cattive. Aveva trovato un cartone rugoso, spesso e nero. Duro come la lamiera di un camion e sufficiente per costruire un modello di aereo adatto ad una persona in carne ed ossa. Lo avrebbe portato sulla scogliera per farlo andare, sicuro, incontro all'orizzonte.  Nascosto e vivo, tra le pagine di formule, coltivava la speranza. All'alba di un giorno nuovo si intrufolò nella stanza della madre e, senza svegliarla, la portò via. Sarebbe stata la prima a fuggire nel vento. La prima a salvarsi. Lui, in fondo, aveva solo undici anni, poteva aspettare. La adagiò sul seggiolino di carta, le diede un bacio e spinse, spinse, fino a vederla volare, leggera. Si librava nell'aria, dritta contro il sole. Gigio il gigante, la guardava sparire, felice. Lontana dal lavoro, dalle malelingue, da lui. La osservava planare dolcemente, puntare verso il mare. Piaceva il mare a sua madre. Poi...non la vide più. Mai più.

di Manuela Paric

lunedì 3 giugno 2013

IL ROMPIBALLE - Poesia scritta all'età di 6 anni.

Rispolvero un mio grande classico. Avevo 6 anni, un amico dei miei genitori veniva spesso a trovarci costringendoci, a volte, a rimanere in silenzio fingendo di non essere in casa...eravamo stremati.

IL ROMPIBALLE

Il rompiballe è uno che DOMANI è qui
e che DOPODOMANI è ancora qui.

Manuela Paric', 1981