lunedì 13 maggio 2013

Altri racconti di altri: Il vicino sul treno #6 di Paolo Marcotti


#6
Ha gli occhiali con la montatura rossa, evidente anche da lontano, nella cornice dei capelli biondi. Indossa spesso la gonna, sopra al ginocchio. Da seduta risale, si accorcia, ma lei bada a non concedere nulla. Probabilmente non è ignara di quel fascino, più da professoressa che da segretaria nel suo caso, quel pensiero voluttuoso, quella certa scintilla con cui la donna, anche non troppo avvenente, appicca il fuoco a sottoboschi maschili più o meno addormentati. L’uso femmineo della verticale occhiale-camicetta-gonna-tacco può variare dal candido inconsapevole al delittuoso: perciò, pur con rammarico, apprezzo e ammiro la saggezza di questa controllata parsimonia.
Salgo sul treno ed è già al lavoro. Arriviamo a destinazione e, pur essendo il capolinea, non smette, non raduna le sue cose, non accenna a scendere. Durante l’intero tempo del viaggio lavora con continuità e concentrazione, senza pause. Il lavoro non le pesa; non lavora come un automa, ma nemmeno con amore. È spietata, nient’altro.
Sta sempre nel primo sedile, nell’angolo dietro la porta, appena entrati nel vagone. Protegge con riserbo se stessa, il suo lavoro, la sua impermeabilità. Non parla mai, non chiama, non riceve telefonate. Il suo aspetto e i suoi modi sono così essenziali da non lasciare spazio per suggerire un nome, e scoraggiano tentativi di affibbiargliene uno così, per approssimazione. L’unica concessione alla frivolezza è una indefinibile e imprevista idea che trasmette: un certo sapore da opinionista di talk show televisivo. È un pensiero che probabilmente le causerebbe orrore. 
Lavora, impassibile e indecifrabile, ma il mistero non riempie l’aria, non si odora, non si tocca. Il suo è un segreto senza brividi, senza scuri, limpido come acque e cieli primaverili. 
Consulta senza sosta pile di scartoffie su carta intestata, nella sua immutabile e leggera routine, a mezz’aria.
È proprio questa leggerezza che cerca, il suo miraggio, il suo impegno, la sua vocazione.
Tutte le sere, giunta a casa, si allena a volare.
In uno spazio e in un tempo noti solo a lei, esercita la mente e il corpo a salti in lungo che scavalcano un intero campo, a schiacciate in canestri posti ad altezze aeronautiche, a picchiate che allenano il petto a sopportare la compressione e il batticuore, a lunghe planate sorretta dal vento e da una piacevole e pulsante emozione di padronanza e libertà.
Padronanza delle leggi del volo, ma padronanza anarchica. Il volo ha tecniche, non regole. Il volo è possibile solo senza vincoli. Volo per esplorare. Volo per mettersi in gioco. Volo per studiarsi. Volo per scoprire un limite, un confine, e fermarsi un battito d’ali prima. Volo per andare oltre. Volo per negare e superare una pila di scartoffie su cui controllare che tutte le norme siano rispettate e che tutti i conti tornino.
Ieri, forse non del tutto involontariamente, mi sono attardato nello scendere. Finalmente ho visto la donna dagli occhiali rossi riporre le sue cose e lasciare il suo posto. Procedo in quella direzione e mentre mi avvicino noto che sul sedile vuoto è rimasto qualcosa. Avanzo ancora per quei pochi passi. 
E… sì… certo. È una piuma.

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