domenica 28 aprile 2013

Poesia: pensieri lievi.

Oggi il cielo è meno grigio. Ho pensato a Rebecca, al lavoro, alle cose da fare. Ho dimenticato la leggerezza e così, con piglio rivoluzionario, ho riletto una poesia che avevo scritto nel 2004. Me ne sono ricordata perché mi piacerebbe poterla riscrivere. Non posso.


Qualcosa dovrà pur accadere
E nell'attesa
Mi trovo a pensarti
Sorrido
Senza dormire più


Manuela Paric', 2004

venerdì 26 aprile 2013

Rubrica: dalla cronaca ai mini racconti 14


Ripropongo un raccontino scritto tempo fa. Oggi mi è capitato di leggere una testimonianza importante e me lo ha fatto tornare alla mente.

Titolo di giornale: Anoressia e bulimia:le malattie più diffuse tra i giovani

ed ecco il mini-racconto inerente:

"Questa volta l'orrore me lo porto appresso", pensava la bimba guardandosi nello specchio. Ricordava di esser diversa, doveva essersi sbagliata. Le sue guance si gonfiavano ogni volta che le osservava, il culo esplodeva ed una certa tendenza bovina le squarciava l'anima. 
L'ultima volta che si era osservata lo aveva fatto in modo semplice: i capelli neri, gli occhi scuri e l'altezza. Cosa era cambiato? Aveva mangiato troppo. E così lo spazio ed i luoghi che prima la abbracciavano ora la contenevano, ne sopportavano il peso e non ne digerivano l'affanno. Ogni angolo era un angolo infetto, un posto dove esistere malamente. Ogni centimetro del suo corpo era sbagliato. Si piegava e sentiva la pelle sfregare  contro altra pelle e le mancava il fiato. Come poteva amarsi? Un mostro. E se non si amava lei, figuriamoci se l'avrebbero desiderata gli altri. Inaccettabile. Era arrivato il momento di riprendere il controllo, di decidere come vivere. Era invasa da una tale sofferenza che non sapeva da che parte iniziare. Era un dolore profondo, un disagio che andava oltre l'apparenza. Cominciò dalle piccole cose, concentrandosi su quel che poteva, come un vecchio saggio. Ricominciare. Così mise in moto il corpo, lo sigillò dentro i confini di una mente solida e dimagrì. Era potente. Era concentrata, ogni pensiero era rivolto a quel territorio isolato, a quel cadavere. L'intelletto, come una sentinella irreprensibile non le permetteva di muoversi da quella zona fatta di regole, rigore e morte. 
Nello specchio c'era sempre lei: grassa, brutta, deforme. 
All’inizio quando nessuno la guardava divorava in fretta merendine, biscotti, carne congelata, sugo, fino a sentirsi piena, fino a sentirsi scoppiare, fino ad andare oltre il limite concesso a qualsiasi creatura. Erano momenti brevi di disperazione e felicità. Poi tutto diventava impossibile.
La sensazione di essere di troppo e troppo, diveniva insopportabile. Le piaceva svuotarsi dai sensi di colpa, svuotarsi dai timori, ficcarsi due dita in gola e non essere altro. Che utopia. Era sempre in gabbia, sempre sotto controllo. Era potente, doveva ricordarlo. Stare da sola.
Una parte di lei amava Giulio, bellissimo Giulio dagli occhi blu ed il profilo impreciso. 
Un'altra parte lo odiava, disprezzava sentire le sue mani tra le pieghe della carne e lo avrebbe ammazzato tutte le volte che le offriva del cibo. Maledetto infermiere. Seduta sul bordo del letto, si perdeva ad osservare il cielo incastrato tra le finestre. Cercava un modo per fuggire, per correre, per scomparire. Ci stava riuscendo. 

La madre, accasciata allo stipite della porta, piangeva la sua bimba tutt’ossa. La vedeva stanca e la luce, bianca, dell'ospedale ne aumentava il pallore. Non c'era giorno che non si disperasse, che non si incolpasse, che non la stringesse per non farla andare via, per sempre. Non ci sarebbe riuscita.

di Manuela Paric'

giovedì 25 aprile 2013

Il mio 25 aprile in campagna

Oggi ho deciso di zappare, di dedicarmi alla terra, ferirla per una giusta causa, rivoltarla come si fa con le teste di polpo e farci uscire qualcosa di buono. Ho deciso di farlo in modo selvaggio, con forza, con entusiasmo. Lanciare semi, sudare e piegarmi, vinta dal mal di schiena. Non sarà facile. E' un'esperienza nuova, dolorosa. Forse non è nemmeno il periodo giusto e questo un campo fertile...ma del verde dovrebbe crescere e non gramigna, non gramigna.

Manuela P.

martedì 23 aprile 2013

Altri racconti di altri: Il vicino sul treno #4 di Paolo Marcotti


Il tempo, nel senso meteorologico ma non solo, è indefinito, a metà. Io ho fatto tardi e prendo un treno estraneo alla regolarità del mio pendolarismo.
Di solito non lo faccio, ma forse proprio l'orario e il clima inconsueti mi fanno guardare attorno in una involontaria, ma non troppo, ricerca di figure che mi accendano curiosità, colori, melodie.
Non ne trovo, si capisce. Perché non sono cose a cui si comanda.
Mi siedo allora dove lo spazio libero è massimo, per distendere le gambe, i pensieri, le letture, le fantasie.
Ho vagamente fotografato l'uomo seduto nell'unica posizione che si propone agevole alla mia vista.
L'ho già battezzato come scarsamente interessante e chiudo gli occhi, desiderando un sonno che sembra realmente sul punto di prendermi.
Però la fotografia sfocata di Gabriele rimane in qualche modo lì, tra l'occhio e la palpebra. Reclama.
E' vero, aspetto ordinario. Poco sotto la cinquantina, occhiali scuri, vestiti e scarpe non espliciti ma che ricordano qualcosa di militare.
E, nonostante gli occhiali scuri, una percepibile espressione arcigna, un cipiglio. O, più precisamente, un'incazzatura. Ma non irosa, non disgustata. Determinata, ecco.
Mi vedo costretto a riaprire gli occhi per acquisire ulteriori elementi.
Gabriele si fruga l'interno della giacca freneticamente, quasi avesse le pulci, e ne cava dei foglietti e un cellulare.
I foglietti, scritti a penna, contengono diversi numeri di telefono, e, non posso fare a meno di notarlo, tutti di persone di nome Mario.
Gabriele manda ad ognuno di questi numeri un messaggio. Questo messaggio: "Mario, non importa. Non chiedere niente, resta sereno. Di alcune cose non vuole parlare nemmeno Dio".
Gabriele si tradisce perché non ha pulito alla perfezione le scarpe. Quegli scarponi neri, quasi anfibi, conservano qualche traccia di fango, di un fango atavico, tante volte meticolosamente pulito ma che inevitabilmente mostra la sua storia. Il verde prevalente di cui Gabriele è vestito suggerisce che è fango di bosco, un bosco in cui lui si muove sicuro, svelto e familiare, quasi come un animale di montagna. Familiare. E' la parola esatta. Perché è il bosco che Gabriele ha preparato, verrebbe quasi da dire costruito, per sua figlia. Sua figlia, con cui è rimasto solo, è una creatura speciale. Dovremmo chiamarla folletto, se solo credessimo davvero alla loro esistenza. E un folletto ha bisogno del bosco, per vivere.
Gabriele non la ama come si ama una figlia, perché Gabriele non sa amare "come". La ama. E amarla è stato procurarsi un terreno. E amarla è fare di quel terreno un bosco, con le sue mani, con le sue forze.
Gabriele, con quell'apparenza che è tutto il contrario, ha anche lui qualcosa del folletto. E mentre siamo troppo concentrati nelle nostre indispensabili attività, ci sfila il telefono o l'agenda. Scorre veloce la rubrica e trascrive tutti i contatti di nome Mario. 
Ogni Mario, un messaggio.
Ogni messaggio, un nuovo albero.
Il bosco si popola e sua figlia è felice. E anche Gabriele, dopo che ha piantato un nuovo albero. Niente più incazzatura, sorride.
Non vi chiedete perché proprio Mario. Non vi chiedete perché il messaggio.
Di alcune cose non vuole parlare nemmeno Dio.

Intervista sul Piccolo Doge

Eccoci con una nuova intervista ad un autore self: Manuela Paric' che ci parla del suo libro "L'enigma delle scarpe rosse" e della passione per la lettura e la scrittura creativa.

"L'osservare, il meditare, il disegnare, il colorire sono i quattro fondamenti su' quali riposa tutto il magistero dello scrivere."
Giuseppe Bianchetti

Buona lettura.

Benvenuto sul Il Piccolo Doge Manuela Paric'. Parlaci un po' di te.

Ciao Sylvia,
vediamo un po'... mi chiamo Manuela e scrivo da sempre. Quando ero bambina facevo finta di saperlo fare, scarabocchiavo interi quaderni... lineette, puntini, cerchiolini: era tutto nella mia fantasia. E' un vizio che mi è rimasto e perciò mi ritrovo ad inventare storie, a costruire la realtà con le parole e a deprimermi su infide pagine bianche. Abito nell'umida padania, amo la nebbia, il sole sbiadito ed i formaggi. Quando posso migro verso il mare (come facevan le pecore) insieme a mia figlia che occupa il 100% dei miei pensieri. Ho una casa infestata da animali di vario genere: un cane nudo, un micio ciccione, un pesciolino zombie ed una larva. Sì, una larva! Sono molto disordinata ma pragmatica, mi salvo per un pelo (ben piazzato sul mio divano). Cucino: impasto, sfornello e tiro la sfoglia, mi rilassa. Che altro dire...ti invito a cena? Ti fidi?

Il tuo libro "L'enigma delle scarpe rosse" è stato auto-pubblicato su Amazon, di cosa tratta, qual è la storia?


continua a leggere su:

https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=363092773809837&id=161730787279371

lunedì 22 aprile 2013

Rubrica: dalla cronaca ai mini racconti 13

Avevamo fatto l'ipotesi di trarre mini-raccontini da fatti di cronaca...

Titolo di giornale: Insegue l'ex moglie e la uccide - Man chases, kills wife on freeway

- Non doveva superarmi. Vacca. Chi si crede di essere, con quel cappellino, imbranata. -

L'uomo accelera. È concentrato. Non c'è traffico, solo quella maledetta macchina prima di lui.

- Ora ti prendo! -

Sta per raggiungerla. Un semaforo lo rallenta, sbraita, tira fuori un braccio peloso dal finestrino e se la prende con ogni Santo. Intanto l'auto verde scompare, dietro una curva.

L'uomo tenta il recupero, fa fischiare le gomme, evita un anziano per puro miracolo. L'anziano cade per terra, rantola, il miracolo è finito.

Le due auto sono ora vicine, la donna è un buon pilota. Tranquilla, velocissima.
L'uomo la odia, guida da quando aveva 11 anni: prima il trattore nei campi neri del nonno, poi un pandino 4 ruote e per finire il successo sulle piste da rally. L'uomo è abituato a vincere. Dà gas.

La donna non esita, scivola sull'asfalto, danza. Svolta a destra, verso la campagna. Lo ignora. Si fa sera. L'aria è bagnata e la nebbia, densa, si alza lungo le rive. Un topolino attraversa la via ed un gufo, ciccione, lo insegue poco convinto fin dentro al bosco.

L'uomo tiene la mano sul cambio. Sa dove sta andando. Mezzo sorriso gli squarcia la guancia. Cambia marcia e sparisce in un viottolo nero alla sua sinistra.  

Alcune case illuminate sembrano stelle. La donna pensa alla cena e a quando si toglierà le scarpe. Manca poco. 

L'uomo ha guidato fortissimo, è sudato. Le mani si stringono sul volante e le nocche gli diventano bianche. Dietro di lui polvere e sassi ricordan le nuvole e fanno il rumore del temporale. Manca poco.

La donna rallenta su un piccolo dosso prima di un incrocio. Un diavolo rosso le taglia la strada, feroce. Felice. E lei non vede più niente. Nemmeno quel palo, quel palo in legno che le entra nel parabrezza e che le passa vicino al cuore. 

L'uomo spegne il motore, corre, vuole vedere. 

E' sua moglie, la sua. Un dolore profondo lo attraversa e lo scuote. Che cosa è accaduto?
La donna ancora si muove, ferita e lo scruta senza fiatare.
Che cosa è accaduto? Ripete l'uomo senza capire.
Gli aveva insegnato lui a guidare.
Gli aveva insegnato bene.
Troppo bene, pensa.

di Manuela Paric'

lunedì 15 aprile 2013

Rubrica: dalla cronaca ai mini racconti 12


Avevamo fatto l'ipotesi di trarre mini-raccontini da fatti di cronaca...


Titolo di giornale: Rapina in trattoria, presi anche salami

ed ecco il possibile mini-racconto ....


 - ...e ti ricordi quando ci andavamo ogni giovedì? La sera della trippa? -
- Come no! Certi fagioloni bianchi, lucidi, farinosi, ti ci volevan 3 morsi per mandarli giù. -
- Già...bei tempi. - 
L'uomo con la barba arriccia il naso e gli occhietti, troppo piccoli per il grande viso, spariscono tra due grandi rughe.
- La fanno ancora la trippa il giovedì, sai? -
- Si? Ma con che soldi ci andiamo? Pazienza...sono passati anni, non ci saran più gli stessi fagioli. Cambia tutto.-
- Hai ragione...però, però non è vita questa. -
- Una vita senza trippa? -
- Anche, una vita con troppo poco. -
- Mangia il panino e non lamentarti, finché c'è -
L'uomo con la barba mastica veloce, le briciole si incastrano tra i folti peli, e rimangono appese, incerte, lungo tutti i baffi. E' buffo l'uomo con la barba, e non lo sa.
- Pane e formaggio, e formaggio e pane. Mi verrà la nausea, prima o poi. -
- Vai a letto ora, si esce presto domani. E' giovedì, se troviamo lavoro andiamo a festeggiare. -
- Due piatti di trippa? -
- Certo Salvatore, certo! -
- Ce li meritiamo. -
La notte finisce in fretta, è ancora buio quando i due uomini si alzano, si lavano, si vestono ed escono in cerca di fortuna.

- Io provo dai russi e tu? -
- Mi faccio il giro dei bar lungo il vialone. -

L'uomo con la barba cammina male, la gamba sinistra porta i segni di un brutto incidente. Subito dopo esser stato licenziato aveva provato a fare il muratore, senza successo. Un'impalcatura alta più di due metri gli era caduta sul ginocchio, rovinandolo per sempre. Era un'esistenza grama la sua, per fortuna c'era Salvatore ad aiutarlo. In due non facevano mezzo stipendio, ma almeno si stavan simpatici.

L'uomo con la barba arranca lungo il vialone, il caldo di mezzogiorno si fa sentire così come la sua gamba. Non vuole sprecare 50 centesimi per un bicchier d'acqua, quando con 23 può avere un'intera bottiglia al discount. Deve solo pazientare. Pazientare è il suo motto da molto tempo, purtroppo.

Arrivato al termine della strada ritrova l'amico. Salvatore lo aspetta accasciato ad un palo, la faccia è quella di un uomo che ha fallito, i Russi probabilmente non avevan bisogno, nemmeno loro.
Si trascinano verso il parchetto, in silenzio. Siedono sulle panchine, di fronte ad un grande Pino.

- Come faremo a Natale?-
- Io non ho più parenti.-
- Beato te, io si.-

Si guardano negli occhi e scoppiano a ridere. Sinceri.

La giornata termina come è iniziata, nel buio.

- Sarà già pieno di clienti? -
- Sicuro! La signora Maria sa bene come gestire gli affari...e la sua trippa, è un ottimo affare! -
- Poi il posto è carino, io mi ci sentivo a casa.-
- Ora ci basta un materasso per sentirci a casa.-
- E del formaggio! Non dimenticare il formaggio!-
- La trippa fa bene solo a parlarne!-

Sono seduti per terra, accanto a loro una bottiglia di birra e del pane. La luce è quella di una candela e della luna.

Salvatore scoreggia.

- Stai ancora pensando ai fagioli?-
- Si, andiamo a prenderli! Facciamo i furfanti.-
- Ladri di trippa, non credo sia un grande reato.-
- Quindi andiamo?-
- Andiamo!-

I due si guardano ancora una volta, l'uomo con la barba è più buffo del solito, capita quando fa il serio.

Si vestono di scuro, si imbrattano il volto con la cenere e strisciano fuori nelle tenebre.

- Passami il piede di porco.-
- Non l'ho portato.-
- Passami un sasso.-
- Non faremo rumore?-
- Ormai siam qui, passami il sasso!-

L'uomo con la barba si sistema i pantaloni, si guarda attorno, non trova sassi, solo cemento. Si toglie una scarpa e la porge a Salvatore.

- Tieni.-
- Ma...puzza.-
- Non fare il cretino! Forza, rompi la finestra!-

La finestra va in frantumi, non scattano allarmi.

- Senti che odorino...-
- E' proprio come me lo ricordavo!-
- Guarda in frigorifero!-
- Ce ne è un pentolone!!!-
- Siamo fortunati.-
- Dovremo scaldarla?-
- Non qui!-
- Hai ragione. Ho fame, è il mio stomaco a fare certi pensieri.-
- Lo so, lo so. Prendo il pentolone e ce ne andiamo via. La mangiamo al parchetto, come dei signori.-

L'uomo con la barba inciampa nelle pentole, qualcuno si sveglia al piano superiore. Salvatore afferra qualcosa per difendersi.

- Non ce ne è bisogno, scappiamo!-

Corrono, svelti. La trippa ondeggia nel grande pentolone ed un po' ne cade, lungo la via. Arrivano alla loro panchina, hanno l'affanno. Respirano a pieni polmoni. L'uomo con la barba tira fuori due cucchiai dalle tasche dei pantaloni. Finalmente.

- Che ci fai con quel salame in mano?-, dice stupito a Salvatore.
- Era li, pensavo fosse un mattarello, ho avuto paura!-
- Avevamo detto solo la trippa, ricordi?-
- E' solo un salame, un buon salame.-
- E se ci arrestano? cosa gli diciamo?...volevamo la trippa ma abbiamo trovato un salame? Non ci crederanno. Seguiranno le tracce, le tracce di trippa! Lo senti l'odore? L'abbiamo lasciato ovunque!-

Salvatore si alza, afferra forte il salame e lo spacca sul testone buffo dell'uomo con la barba, che sviene.

- Prenderanno te, al massimo!-

Afferra il pentolone, il cucchiaio e fugge. Affamato.

di Manuela Paric'

venerdì 12 aprile 2013

La recensione a 5 stelle di Vera Q.

Non posto mai recensioni, ma quella di Vera Q. autrice che stimo, mi ha fatto veramente molto piacere.

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Ho terminato in questo preciso momento una piacevolissima lettura.
Potrei definirlo noir, ma sarebbe fuorviante.Thriller, magari, ma non renderei giustizia alla bravura dell'autrice nel tessere l'intreccio.Certo, abbiamo l' ispettore, l'indagine ed il colpevole, eppure non si tratta di un giallo.Preferisco descrivere questo racconto come una discesa nell'inquietudine di un uomo dilaniato dai sospetti.Capitoli brevi, brevissimi, essenziali e dai toni onirici.Personaggi vari e variopinti, a tratti maleodoranti.Ed un Sig. Mocha, il "nostro eroe", innamorato del caffè.Nulla è a caso in questo romanzo, va seguito persino nelle pause.Ah, se rinasco sarò Teodora, la chiromante.
Grazie Manuela Paric' e grazie al suo "L'enigma delle scarpe rosse".



Vera Q.


Qualcosa su Vera Q.

Dice di lei:
Scribacchina nata, vissuta e vivente. Almeno per ora. Pardon: grattatina di palle doverosa.

Ha scritto

2017 A.D.


Un thriller psicologico, irriverente, a tinte scure, in cui ogni piccolo tassello ha il compito di sorreggere ed alimentare il Puzzle dell'Alienazione.
Link Amazon per l'acquisto
http://www.amazon.it/dp/B00BR2U5TQ/

La scatola di cioccolatini di Silvia... (e di altre crudeltà)

La Scatola di cioccolatini di Silvia... (e di altre crudeltà) è un libro articolato in quattro romanzi brevi uniti dallo stesso filo conduttore e dalla medesima matrice: il degrado morale.
Le storie presentate sono comuni e davvero vicine a quella quotidianità che mastichiamo tutti ogni santo giorno.

mercoledì 10 aprile 2013

Rubrica: dalla cronaca ai mini racconti 11



Avevamo fatto l'ipotesi di trarre mini-raccontini da fatti di cronaca...


Titolo di giornale: Stati Uniti: nuovo caso di pedofilia.

ed ora il possibile mini racconto...


La madre piange, è sola. In mano ha un sonaglino azzurro a forma di coniglio, sul pavimento sono abbandonate alcune fotografie e dei disegni, coloratissimi.
Il sole entra, dorato, dalla grande finestra. La televisione è spenta e la primavera odora di buono. Un quotidiano è aperto sul tavolo di vetro e un gatto dorme, beato.

La madre invece piange e tutto intorno muore. Muoiono i segni di succo di frutta lasciati sul divano, muoiono le tracce di tempera sui muri bianchi, muoiono le impronte di piccole guance appiccicate allo specchio, muoiono i fiorellini lasciati a seccare, muore il giorno in un silenzio senza ritorno e senza sogni.

La madre piange mentre il futuro diventa un luogo impossibile ed il presente si trasforma in uno spazio insopportabile. La madre piange, abbracciata a quello che aveva e rimane lì, sospesa, ferma, a trattenere.

La madre piange e si alza, si prepara un caffè. Lui aveva i suoi occhi, il suo sangue, il suo amore. Non si erano amati da subito ma si erano cercati. Lui assetato, lei fertile. Lui piccino, lei desta. 
Avevano imparato a conoscersi: 5 anni di disastri e di conquiste, i 5 anni migliori. La madre li rivuole indietro, tutti, ogni secondo, ogni istante, ogni febbre, ogni incubo, ogni litigio, ogni abbraccio, tutto.
E così piange, piange perché non è Dio, piange perché il destino non esiste e piange perché il mondo è più povero senza il suo bambino, non c'è più scampo.

Il caffè si è raffreddato, il fornello è spento ed una goccia, indecisa, pende dal rubinetto della cucina. 
"La casa è in ordine.", pensa la madre ed una fitta cattiva le ricorda che ha uno stomaco e un cuore.
Il telefono squilla, squilla e squilla. Sono tutti partecipi e curiosi di fronte alla morte. "La mia" pensa la madre, non riconoscendo più nulla di se stessa.
Una zia le ha detto di farsi forza, di attendere, di sopravvivere. Una zia lontana. 
La madre piange, ogni consiglio le sembra inutile.
Non ha intenzione di rimanere ferma ad attendere il cadavere del suo nemico scorrere lungo il fiume. Non vuole vivere di solo dolore. Non cerca la pace.
La madre piange, apre la porta della stanza del figlio, si riempie i polmoni di quell'aria dolce. Una lacrima cade sul tappeto. La madre piange, per qualche minuto rimane sulla soglia, poi entra, si sdraia nel lettino, mette a posto le ciabattine dell'uomo ragno, accende la lampada origami e respira a pieni polmoni, ancora.

Sono passate ore, le cicale hanno smesso di cantare e la notte è scesa, tranquilla.
La madre piange, supera gli scalini che portano alla cantina. In mano ha una corda spessa e lunga. L'umidità le si attacca alla fronte, al sudore, agli occhi gonfi.
Non ha acceso la luce, conosce bene la sua cantina. Prende la corda, la fa passare oltre le travi di sostegno, prepara un cappio.
Si siede sopra una vecchia valigia, fuma una sigaretta. Pensa che la brace sembri una lucciola al buio, al suo bambino piacevano le lucciole, a lei no. Bestie agghindate, scarafaggi, fatine fasulle, demoni. Sono mostruose come l'uomo che gli ha portato via il figlio. Schiaccia la sigaretta, con rabbia, come si fa con le zanzare.
E' pronta. Accende la luce, sistema la vecchia valigia sotto il cappio. Indurisce i muscoli, tiene tesi gli addominali e vi appende un uomo grasso, legato come un salame. Gli occhi di lui implorano una pietà inammissibile. 
La madre piange, immagina il viso del figlio tra le cosce di quell'uomo grasso. 
C'è troppo orrore.
Spinge con il piede la valigia.
Troppo orrore.
Osserva il cadavere del suo nemico dondolare trasportato dalla corrente.
Inaccettabile.

di Manuela Paric'

Altri racconti di altri: Il vicino sul treno #3 di Paolo Marcotti

La signora Luana ha i capelli tagliati corti, da poco, con una bella tinta biondo platino che ha un effetto molto naturale e al di sopra di ogni ironia, almeno su di lei. 
Una sessantina d’anni, non trascurati ma nemmeno nascosti dietro qualche infantile espediente. Semplici e lucidi come il pelo del gatto più coccolato di casa. Gli stivali, di pelle chiara, e sopra una lunga gonna tigrata, un piccolo azzardo, anche questo quasi impercettibile su di lei. Il rossetto e le unghie di un insolito color rame le danno quell’aria da fotografia di qualche anno fa, piuttosto che da persona presente lì, in carne e ossa. Siede perfettamente diritta, con un accavallo elegante e compostissimo che ha qualcosa di nordeuropeo, pur senza trasmettere una sensazione di freddo.A volte, non troppo spesso, partecipa alla discussione delle altre donne, piuttosto chiassose, sedute nei pressi, che conosce ma con cui non è in confidenza. I suoi interventi sono a tempo, chirurgici, pare quasi che conosca da prima la lunghezza delle pause della conversazione e abbia delle frasi perfette da inserire. Perfette ma non studiate. Naturali. Le sue parole non sono banali o sorprendenti, né polemiche o spiritose. Inchiodano la realtà, e basta.È qui che vedo una sala tutta piastrellata di bianco e dei tavoloni metallici. La signora Luana, o dovrei meglio dire la dottoressa Luana, fa le autopsie. E le fa nell’unico modo immaginabile, con gesti essenziali e misurati, mantenendo un ordine interno ed esterno necessario perché la natura lo ha previsto così, sporcando e sporcandosi il meno possibile. Sì, il punto è questo. La dottoressa Luana non è mai stata sporca in tutta la sua vita. E non può che essere così: un mestiere, quasi una vocazione religiosa, ai confini con la divinità. Sacerdotessa della morte. Restitutrice di una causa là dove la causa è incompresa, ignorata, smarrita.Arrivata alla sua fermata, si alza e percorre il corridoio che separa il suo sedile dalla porta. Annuncia con tono liturgico, ufficiale ma disteso, il motivo della morte ai viaggiatori che man mano affianca. Io non sono in quella direzione. Rimango lì, appeso, senza verdetto.


di Paolo Marcotti

lunedì 8 aprile 2013

Blog Tour: Deserto Rosso!



Oggi vi presentiamo la bravissima scrittrice di fantascienza Rita Carla Francesca Monticelli...
A voi!


Parlaci di Deserto Rosso:
- il progetto
- i punti di forza
- gli sviluppi futuri

Ciao Manuela, prima di tutto ti ringrazio per avermi ospitata nel tuo blog J
Il progetto di “Deserto rosso” è nato un po’ per caso. All’inizio volevo scrivere un racconto ambientato su Marte, sull’onda del lancio di Curiosity avvenuto nel novembre 2011 e la lettura del romanzo “First Landing” di Robert Zubrin, il fondatore della Mars Society, che racconta appunto della prima missione umana su Marte. Poi è successo che l’idea si gonfiata trasformandolo prima in una novella, “Punto di non ritorno”, che a sua volta è diventata il primo episodio di una serie, che andrà a costituire un macro-romanzo di fantascienza.
La storia si apre sulla protagonista, Anna Persson, un’esobiologa svedese, che fa parte della prima missione di colonizzazione del pianeta rosso e che una mattina, dopo oltre mille giorni di permanenza su Marte, lascia di nascosto la sicurezza della struttura abitativa per addentrarsi da sola nel deserto marziano, mostrando una determinazione tipica di chi non abbia più nulla da perdere. Il suo gesto fa pensare a un suicidio, visto che il supporto vitale del suo rover ha un’autonomia limitata a cinquanta ore e lei ha tutta l’intenzione di superare il punto di non ritorno, per raggiungere dei luoghi che per ovvi motivi non ha mai potuto visitare prima. Non si capisce se sia spinta dal folle desiderio di arrivare laddove nessun altro è mai arrivato, anche a costo della sua vita, o se ci sia dell’altro. E così, mentre viaggia e ci mostra il paesaggio marziano, nella solitudine del suo veicolo si lascia invadere dai ricordi degli eventi che l’hanno portata a far parte di quella missione. In questo modo Anna ci fa partecipi del suo passato, dei suoi segreti più oscuri e di ciò cui ha rinunciato per andare così lontano, fino all’inatteso finale, che apre nuovi scenari e ci proietta verso il secondo episodio...continua a leggere l'intervista e scopri tutto sul mondo di Deserto Rosso

Poesia: A mia madre




Miti correnti
dietro occhi nocciola
e ruscelli
animali
e anime.

Quando ti guardo madre,

sono due le mani che osservo
diverse da ieri
simili a ieri
vicine.


Manuela Paric' 2006









Quadro di Pia Camporese

sabato 6 aprile 2013

Rubrica: dalla cronaca ai mini racconti 10


Avevamo fatto l'ipotesi di trarre mini-raccontini da fatti di cronaca...



Titolo di giornale: Anziano investe e uccide moglie con auto

ed ecco il possibile raccontino...



-La schiaccio! ... stronza!.. Lei e il cane. Quella lurida bestia puzzolente. Peli, peli di cane ovunque. Nel letto, sul tappeto e sulla mia, LA MIA!!... poltrona. -

Il vecchio è seduto dentro la Giulietta azzurra, stringe le mani sul volante, ha appoggiato le stampelle sul sedile del passeggero. Trema. Sono 20 anni che non guida: dall'incidente.
- Tutto questo tempo a sentirmi di troppo. Mi aiutavi, ogni giorno. Mi amavi, premurosa. Mi hai pulito il culo, tagliato le unghie, fatto addormentare. Mi sono sentito come un bambino. Annientato, inutilmente. -
Il vecchio suda, gli fa male la schiena e fatica a tenere le gambe sospese, si aiuta con le dita stanche. Resiste, conosce la moglie, sa che non tarderà.
- "E' stata una disgrazia, non fartene una colpa.", mi dicevi, maledetta, intanto che sfregavi la spugna calda sulle mie ginocchia, ormai inutili. Avevo solo te, solo te. Il mondo si era improvvisamente ristretto, accorciato. Le stanze si erano suddivise in segmenti quadrati liberi o segmenti quadrati occupati. Le carrozzelle impegnano più spazio di un uomo, bisogna farsene una ragione. E' stata dura, e tu c'eri. Mi ricordavi che potevo farcela, insieme a te. Mi ricordavi che ero dimezzato e che tu, più che mai, mi avresti completato. Quanta debolezza in noi. Anche la debolezza è una forma d'amore, a volte. Almeno così pensavo, fino a questa mattina. -
Il vecchio parla da solo, respira a fatica, tradito da una piccola ansia, non è più abituato all'indipendenza. Si slaccia il colletto della camicia con la mano sinistra, l'unghia del pollice gli fa un graffio sul pomo d'Adamo.
"E' Martedì, il giorno della toeletta", pensa infastidito. Ogni cosa gli ricorda lei.
- Chi sono io? -
Guarda i suoi occhi riflessi nello specchietto, non li riconosce, non più. Una volta erano occhi ambiziosi, di un uomo che voleva combattere. Lo erano stati anche quando aveva scoperto di non poter più camminare, ma poi lei, solo lei, li aveva spenti. Si sente soffocare, turbato. La consapevolezza di aver sprecato tutta la vita, la rabbia per essersi fatto trascinare sempre più in basso e l'odio, sono tutto quello che gli rimane.
- La schiaccio! Stronza!! -

- Cosa stai dicendo caro? Cosa ci fai in macchina? ..ti ho cercato ovunque. -

- Ti pensavo. -
Il vecchio non è spaventato da quella inattesa interruzione: è deluso.
- Come mai non sei passata dal vialetto? Ti stavo aspettando. -
- Mi hanno accompagnato, ma tu... - lo osserva accigliata - Dove vuoi andare? Sai bene che non puoi guidare nelle tue condizioni. Vieni, nonnetto...- prova ad aprire la portiera - ...apri, ti accompagno alla tua poltrona, ho tolto i peli! -
- Non farlo. -
- Scusa? -
- Non farlo, non fingere, ho scoperto tutto. -
La donna non capisce, lo osserva colma di apprensione, come una madre.
- Ho trovato la busta, il diario, le medicine. Io so. Non volevi perdermi, lo capisco, ma non mi hai lasciato vivere, mi hai solo fatto invecchiare, sereno. Non ti perdonerò mai. -
Il vecchio accende il motore.
La donna ha cambiato espressione. Lascia cadere ai suoi piedi la borsetta: il rossetto rotola vicino alle ruote, il portafoglio si apre, la foto di famiglia vola via, catturata dal vento. Una metafora, una coincidenza.
- Posso spiegarti!.. -
- Non c'è più nulla che tu possa fare per me, nulla. -
La donna è disperata.
"Non c'è più nulla che tu possa fare per me."
Le parole del marito le rimbalzano dentro la testa, si mescolano tra le sue paure più profonde e la corrodono, in fretta.
- Avrei preferito campare con una mano nelle mutande e l'altra nel naso, ma non così. - urla il vecchio. La gamba è viola, non lo regge. il suo corpo, morbido e abituato alla pigrizia, lentamente scivola dal sedile. Non ha più bisogno di grandi gesti. Si lascia andare.
La donna è sconvolta. Si porta davanti all'auto, allarga le braccia ed implora:
- Uccidimi. -

Vuole avere il controllo, un'ultima volta.

Il vecchio è incastrato, non riesce a spostare le gambe, a muovere i piedi. E' pesante e scivola e accelera e la moglie non c'è più.
Resta solo del sangue sull'asfalto e lui ha perso. Ancora.

di Manuela Paric'

mercoledì 3 aprile 2013

Rubrica: dalla cronaca ai mini racconti 9


Avevamo fatto l'ipotesi di trarre mini-raccontini da fatti di cronaca...

Titolo di giornale::La pena di morte non ammette ripensamenti

Per questo mini racconto, ispirato ad un titolo di cronaca, ho voluto rispolverare uno scritto di quasi 7 anni fa. Ci cade a fagiolo (e le parole non sono scelte a caso!) Mi scuso fin d'ora per la natura scatologica della vicenda.

Il condannato. Ultima ribellione.



- Si alzi.-
Non lo voleva fare.
- Si alzi!- urlò la guardia con voce cattiva.
Indugiò, non lo voleva fare. Non per manifestare qualche sopravvissuto moto rivoluzionario, ma bensì per qualcosa di più creativo, come avrebbero detto i compagni della cella 11: gli scappava da cagare.
- Si alzi! E' ora. - 
La bocca velenosa della guardia si fece lunga come una vipera, una di quelle che ti sbarrano la strada nei pressi del bosco. Una vipera sentinella, la peggior specie.
Provò a muovere appena la natica sinistra, con destrezza contrasse ogni muscolo annesso e creò un sigillo tra lui e il mondo. Era obbligato.
Lo attendeva un corridoio lungo, troppo lungo per le corde del suo intestino, pensò Santiago. Non poteva morire così, annegato nelle feci, senza alcun controllo.
Strinse quindi con maggior fermezza il culo e fece un altro passo.
La guardia, intanto, pensava che erano tutti uguali i criminali: eroi davanti alle loro vittime ed agnelli pasquali, timidi mendicanti di fronte alla loro morte. Sputò per terra, voleva farlo scivolare, metterlo in ginocchio; voleva ridere di Santiago, come se il disgraziato fosse un pagliaccio del circo, con il naso rosso, i pantaloni a righe e l’aria da perdente. 
Il condannato non cadde, era concentrato. Aveva un obiettivo.
Un altro passo.
Il poverino sentiva le vene pulsare con ferocia tra la pancia ed il cuore. E brividi.
“Non tremare, non farlo, mollerai la presa e ti cagherai addosso, sconfitto”, si incoraggiava.
Un altro passo, la sentiva in punta l'umiliazione. Spingeva.
Fremiti.
Ancora 25 passi, che silenzio.
Le domande più sciocche si misero in mezzo ed occuparono i suoi ultimi momenti. Quali erano i misteri dello sfintere, muscolo d'Achille? Come poteva reggere tanto peso? Piegarsi ai bisogni più grandi e chiudersi in se stesso quando la situazione lo richiedeva? Gli piaceva immaginare il suo colon come una rigogliosa fontana azzurra, molto azzurra, di quelle da giardino artificiale. Un colon-fontana percorso da tiepidi ruscelli e coperto dal sole. Invece l'ano no, quello era come uno zio, con i baffi ed impertinente, sempre pronto a contraddirti e a lasciarti nella merda. Lo vedeva.
Quelle fantasie lo stupirono, e sorrise. Uno degli ultimi, aveva valore.
La guardia non ne poteva più, il condannato andava pianissimo, strisciava i piedi, esitava. Era sempre la solita storia con i terminali, gli facevano perdere tempo, il suo tempo, un tempo onesto. Del resto, il loro non c’era più.
- Cazzo avrà poi questo da sorridere...feccia!-, non esitò a dire ad alta voce l’uomo in divisa.
E invece da ridere ce ne era e ce ne sarebbe stato. Passo dopo passo, fino alla chiusura di un nuovo giorno innocente.
Non era una bella immagine: un ambiente spoglio, la luce al neon, un uomo che procedeva verso la morte. Ciononostante c’era del ridicolo, del grottesco. Un avanzare sgraziato che faceva emergere tutta la tragedia che si stava compiendo. Un macaco colpito in giovane età da un colpo apoplettico stava dirigendosi al patibolo. Traballante e su due zampe. Era una di quelle scimmie con il gibbone rosso sul sedere, una escrescenza cancerosa pronta ad esplodere in feci. Non un clown, non un naso.
“Secondo me, mi hanno purgato...”, pensò, “Che bastardi! E' a questo, quindi, che serve l'ultima cena. Scorre meglio l'elettricità se non hai nulla dentro: e muori prima.”  
Era schifato.
“Patè, petto di pollo, risotto al tartufo...dove lo han messo?” 
Una lunga fitta e poi la soluzione: “Era nascosto dal tartufo…vi odio…lassativi sciolti tra gli odori della terra…non c’è più rispetto, non per le radici, non per i morti, non per i vivi. Risparmiatori sadici, giullari della fine...fetidi macellai!”
Tremava, zoppicava, indugiava. Scoreggiava.
L'atmosfera era comunque solenne. Una guardia dall'espressione seria guidava il condannato attraverso lo stretto corridoio. Dalla porta blu a quella nera. In silenzio.
Il condannato, come tale, camminava lento, il viso contratto. Tutta una vita.
Rumori sordi, qualche peto, ancora 15 passi.
E spingeva.
E spingeva, spingeva, spingeva...era una guerra intestina, muovere l'anca più a destra, sollevare di poco il tallone, non pensare.
- Voglio morire da martire! Senza paura, senza cagarmi addosso. Maledetti...lo avete fatto apposta, ma non mi purgherete così dai miei peccati!-
L'unico pensiero che si celava dietro quello sguardo serio e maestoso, trasbordante di eternità, era il controllo muscolare ai fini di una sana ed irraggiungibile stipsi.
E spingeva, contraeva, si piegava, irrigidiva i pugni…sempre più lento.
Dieci passi.
Sulla soglia della porta nera il condannato si presentava con la fronte lucida, sudata ed una espressione intensa. La lotta, la dura lotta, era quasi finita. Che pace. Quali stelle.
L’atteso sollievo.
Arrivò un altro ometto. Un corvaccio nero come le nubi d'inverno, portava sicuramente sfortuna.  Aveva un libro in mano, un composto pallore, il naso adunco ed un’unica domanda:
- Vi è qualcosa che desideri dire figliolo prima che giunga il momento?-
Nessuna replica evidente.
- So che è difficile, ma è un buon momento per espiare i propri peccati nella misericordia del Signore. Vi è dunque qualcosa che desideri dire, figliolo?-
Voleva unicamente una cosa: una latrina, un gabinetto, un pitale, un albero, un angolo buio, una stradina sterrata, un'insalatiera...
- Cosa desideri dire, quindi, figliolo?-
Una sola risposta, rapida, fluida, sincera. Guardava il prete con odio e tormento.
- Non desideri dire nulla, dunque? -, sibilava.
Le labbra appena socchiuse, un gemito, le palpebre che traballano, calore.
Un orgasmo celeste. Il perdono.
Aveva desiderato. Aveva avuto.
Merda. Merda ovunque.
Scendeva da sotto le caviglie, morbida e gommosa, ribelle.
Una sensazione piacevole lo percorse. Tepore. Amore.
- Chissenefrega se morirò tutto cagato!-
La guardia piegò la bocca dal disgusto.
- Lo sapevo che era il più codardo di tutti, spazzatura tra tutti gli uomini spazzatura!-, disse categorico all’uomo di fede. Tutto capitò in fretta.
Il prete, con un balzo da uccellaccio schivò il primo rivolo. Ma venne sopraffatto, tradito dalla tunica, dallo scorrere della seconda ondata, e bagnato e sporco cadde. Supino.
Il condannato rideva. Rideva. Quasi felice. Dimentico.
- Che grande invenzione la merda, la mia!-, l’ultima ribellione.
La guardia si precipitò in soccorso dell'anziano e mai parola fu più giusta. Lo scarpone lucido e nero incontrò sgarbato il pavimento e lo fece cadere, sconfitto, malamente arreso. Il viso imbrattato, il corpo umidiccio. Un ammasso di muscoli accanto ad un ammasso di preghiere.
Il condannato rideva. La bocca aperta, i denti cariati in danza.
Il condannato rideva. Rideva. Ancora.
La porta nera si aprì, due medici dall'aria aggressiva, i guanti bianchi, i calzari antiscivolo, lo trascinarono per il braccino dentro la stanza. Ciechi e muti.
Due giri di nastro isolante, una controllata alla gola.
Corrente.
Pausa.
Corrente.
Un applauso.
In corridoio, una clandestina nera a ripulire.

di Manuela Paric, gennaio 2007