giovedì 31 ottobre 2013

Ucronia, fantapolitica, economia in "Vita facile ha un carburatore" di Fabio Postini



Hospitia è una grande città stato dell'Agglomerato del Nord. Milioni di tonnellate di cemento delimitano le celle di una società ridotta al più immorale operaiato, in cui ogni persona rischia di diventare nient'altro che un ingranaggio sacrificabile e sostituibile. Schiavi del lavoro e di una vita che appartiene alle bizze altalenanti dei bilanci finanziari, i cittadini si ritrovano (non consapevoli) alle soglie di un evento storico epocale di taratura globale, che decreterà la salvezza, o il tramonto, dei più basilari diritti civili e costituzionali. Quegli stessi diritti che sanciscono la differenza tra uomini e prodotti da allevamento.
Ma Hospitia è anche la casa di Vincent. Vincent non ha un passato: il giorno prima aveva dieci anni in meno; quello dopo, il tempo era trascorso e mezzo mondo lo separava da casa.
Ora è tornato e la vecchia città è talmente vasta da farlo sentire un estraneo. Ha con sé poche cose e ancor meno certezze.
Ma è l'unico ad aver capito cosa sta per accadere.












venerdì 13 settembre 2013

L'ENIGMA DELLE ANIME PERDUTE

Ci siamo quasi...cof cof...ancora un mesetto? Meno? Di più?
Questa la copertina: un omaggio al meraviglioso dipinto di Ottavio Taranto. 
Atmosfere surreali, pensieri divergenti e angoscia.
A breve.

Manu


venerdì 2 agosto 2013

Altri racconti di altri: Il vicino sul treno #11 di Paolo Marcotti

#11 (litania)
I pendolari del regionale costituiscono, in natura, una comunità. Quasi una famiglia allargata, ma il pendolare non ammetterà mai la definizione di famiglia, perché il pendolarismo ha un’etica e un’etichetta, non si fa abbindolare dalle smancerie, né si concede al sentimentale.
I pendolari, certo, hanno un lavoro, una famiglia, degli amici, degli hobby. Ma si tratta pur sempre di dimensioni influenzate dal pendolarismo, che, si potrebbe dire, dà una forma e un perimetro peculiari all’anima del pendolare.
Comunque sono tutti operai, anche se lavorano in banca. Perché viaggiano in regionale. Il regionale promuove tutti di diritto in classe operaia. Dai regionali è perfino scomparsa la prima classe. Questo rassicura e garantisce il pendolare: la dignità e l’uguaglianza sono raggiunte, scolpite, non discutibili.  
Il parente, l’amico, il vicino, il conoscente guardano al pendolare del regionale con rispetto, quasi con timore reverenziale, non per benevolenza o ammirazione verso le fatiche del viaggio, ma perché percepiscono che si tratta di una forma di lotta. Compagno pendolare.
Il pendolare ad alta velocità viene invece guardato con sospetto dall’estraneo al pendolarismo. Anche se è un fattorino precario, non la racconta giusta, c’è qualcosa che non va, un distacco. Il pendolare regionale invece non guarda al pendolare ad alta velocità. Sarebbe un guardare senza vedere, senza capire, un libro aperto in mano ma non sai leggere.
Per il parente-amico-vicino-conoscente il pendolare regionale è un maitre a penser. Il pendolarismo gli conferisce un’autorità e un’autorevolezza morale e intellettuale che naturalmente il pendolare non ha e sa di non avere. Ma è pienamente conscio del suo ruolo sociale e lo ricopre al minimo con abnegazione, e se può con creatività. È un invisibile collante.
Il pendolare regionale in alcune situazioni può apparire superbo. Ma si tratta, in realtà, di innocente e inconsapevole eccesso di competenza. Quando il viaggiatore occasionale si accomoda, il pendolare disapprova. Non per superiorità, ma perché sa che dalla stazione X in poi, su quel sedile batterà fastidiosamente il sole. O perché interrompe l’equilibrato e delicato schema di incroci delle gambe, che i pendolari, senza darlo a vedere, sanno gestire con approccio scientifico.
Il viaggiatore occasionale è spesso fonte di preoccupazione per il pendolare. Il viaggiatore occasionale si agita per un’infinità di motivi: perché è troppo caldo o troppo freddo, perché non riesce a sistemare le sue cose, perché non trova una posizione comoda, perché non ha obliterato, perché non trova il controllore a cui deve assolutamente chiedere informazioni, perché fa continue telefonate a voce troppo alta, per lamentarsi del ritardo e del fatto che niente funziona. Il pendolare naturalmente non nega l’esistenza di queste problematiche, che conosce fin troppo bene. Il pendolare si preoccupa per il viaggiatore occasionale perché vede chiaramente che l’agitazione peggiora lo stato delle cose, che può invece essere facilmente tenuto sotto controllo con il giusto aplomb. Allora fornisce, anche se non interpellato, alcuni preziosi consigli. Il viaggiatore occasionale avveduto li coglie e ne fa tesoro, i caratteri più bisbetici e incauti invece reiterano e moltiplicano la loro agitazione, nel qual caso vengono lasciati a cuocere nel loro brodo. Il pendolare è empatico, ma se non trova collaborazione si stufa.
Allora estrae dalla borsa un libro, e legge. Il pendolare ha sempre una borsa, che contiene sempre qualcosa da leggere e un ombrello. Spesso l’acqua, qualche volta un contenitore col pranzo. A volte una maglia, perché quando esce di casa il mattino presto fa freddo, o perché l’aria condizionata sul treno ti frega. Comunque il pendolare legge spesso, tanto, di tutto. A inizio carriera il pendolare può anche essere una tabula rasa, ma dopo qualche anno eccoti carriole di cultura, badilate di conoscenze, rimorchi di opinioni, tutte puntuali e a 360 gradi. Da Moccia a Dostoevskij, da Giacobbo a Hawking, da Totti a Bauman. Il pendolare singolarmente tende alla tuttologia. Un vagone intero di pendolari è quasi certamente tuttologo.   
Il pendolare quasi sempre ama parlare col suo simile. Chi si conosce da una vita parte sicuro, con ordine del giorno noto a tutti i partecipanti. Chi è meno introdotto comincia col pretesto del ritardo, del riscaldamento, dell’inadeguato viaggiatore occasionale, dell’uscita di spirito del controllore, di un rumore nuovo ed equivoco del treno. In ogni caso tutto il bagaglio intellettuale che il pendolare ha maturato sul treno o privatamente non entra in gioco. I pendolari parlano esclusivamente di aspetti pratici della vita quotidiana, o di cosa succede in famiglia o in paese. Al più, di salute. Al massimo, di sport. Mai di politica, e soprattutto mai di ricette per far funzionare meglio le cose. Per quello, il pendolare sa che il treno non è il luogo adatto, e anche lui va dal barbiere. Il pendolare è, prima di tutto, una persona sommamente consapevole. 
Infine, spesso i pendolari dormono. A volte per sonno e per stanchezza, sì, ma tante volte per sognare. Sognano luoghi piacevoli, ognuno a suo gusto. Chi con prati fioriti, chi con un laghetto, chi con spiaggia esotica, chi con baita alpina. Chi in compagnia della famiglia, chi degli amici, chi di quella mora con l’occhio languido ma piccantino che sale sempre alla stazione di Z. Ma, invariabilmente per tutti, nel sogno ci sono due città. Gli abitanti della città di A lavorano tutti nella città di B, e gli abitanti della città di B lavorano tutti nella città di A. E, naturalmente, si spostano tutti in regionale, ed è il migliore dei mondi possibili.

martedì 30 luglio 2013

Rubrica: "Storie di famiglia" - La signora Paplova



La signora Darina Paplova era seduta in cucina. Qualcosa non le tornava. Aveva speso 30 centesimi per il latte, 65 per il formaggio, 20 per una bella grossa micca di pane e si era concessa, come ogni venerdì, una copia della rivista "Giardinaggio e amore". 145 centesimi in tutto. Non si stava sbagliando. Eppure, in tasca, le era rimasta solo una sgualcita banconota da un dollaro. Dove era finito il resto? Controllò nuovamente il piccolo borsello in pelle, aveva due fermi in ottone durissimi e per questo veniva aperto solo quando era necessario. Niente. Vuoto. I polpastrelli dei pollici le bruciavano ma più ancora la infastidiva non venire a capo della faccenda. Erano periodi difficili, si pativa la fame e non si aveva mai abbastanza, non era proprio il caso di perdere del denaro. Al piano superiore sentì battere il bastone di sua suocera. Toc Toc Toc tre volte, pausa, altre tre volte, la stava chiamando. Amanda Chiarimbotto aveva 78 anni, i denti gialli e il carattere di una tigre malese. Aveva seppellito due mariti, cinque figli e otto schnauzer. Comandava ancora. Sdraiata nel letto, avvolta da una leggerissima coperta in seta aspettava la nuora per interrogarla sull'andamento della famiglia. 
- Quindi? -
La Signora Paplova sapeva bene che mentire non sarebbe stata una mossa vincente. Le guance le si velarono di rosso e cercando di mantenere un tono autoritario rispose alla vecchia.
- Ho fatto la spesa, sistemato l'orto, lucidato i vassoi che si stavano annerendo. Dovremmo chiamare l'idraulico, il rubinetto del bagno funziona a singhiozzo. - 
Aveva parlato senza prendere fiato, nemmeno una volta.
- Mmm mmm - 
Madama Amanda fece scorrere la lingua sopra entrambe le labbra, sistemò il cuscino in modo da mettersi più dritta e alzò il tono della voce fulminando con entrambi gli occhietti grigi la poveretta.
- C'è dell'altro? - 
- Non trovo 63 centesimi. Ho controllato ovunque. Credevo di averli appoggiati nel vaso all'ingresso. Mi sarò sbagliata ma ... -
- Non preoccuparti. - 
Con un gesto della mano l'anziana la congedò.
Darina era sempre più confusa, era abituata alle stranezze della megera ma non si sarebbe mai aspettata tanta pacatezza: per quanto riguardava i risparmi Amanda Chiarimbotto era più rigida di una banca Svizzera.
Poco male. Si accese una sigaretta e sprofondò nella poltrona del salotto. L'indomani sarebbe tornata al negozio.
I giorni passavano, le giornate a poco a poco diventavano sempre più lunghe e l'umore della Signora Paplova più instabile. Qualcuno la stava derubando. Era come se un entità malvagia le stesse nascondendo monetine su monetine. Con piglio da investigatrice iniziò a stilare una lista delle possibili cause. La prima, quella che le pareva più conveniente, era anche la più facile da verificare. La verità è evidente. A parità di fattori la spiegazione più semplice è da preferire: la via da seguire sarebbe stata quella del rasoio di Occam. Iniziò quindi a sospettare che la vecchia signora fosse diventata cleptomane. Un lunedì, con la scusa di rifarle la stanza si mise a frugare in ogni dove ma, non senza un certo disappunto, constatò che  non c'era nemmeno un soldino, nemmeno per sbaglio. Evidentemente non era stata lei, le fu subito chiaro. Come se non bastasse, quella stessa sera, perché i pensieri – si sa - non vengono mai da soli, una brutta febbre si impadronì di Amanda Chiarimbotto. Una febbre profonda, indistruttibile e malvagia. La pelle della donna sudava ogni liquido presente in corpo, la nausea vinceva sulla fame e crampi muscolari alle gambe aumentavano ogni afflizione. Gli impacchi non avevano alcun effetto.
Il dottore arrivò solo nel tardo pomeriggio di giovedì. Darina sospettava che molti anziani fossero affetti dal brutto male che aveva colto sua suocera, quel ritardo era comunque un'ingiustizia.
- Salve. -
- Quali sono i sintomi? - 
Il medico si muoveva con sufficienza, alleggeriva le mani con l'aria, sollevava il polso della paziente con due dita e evitava di sedersi.
-Ha la febbre alta, l'alito cattivo e delira. -
- Deliri? Che dice? -
- Non saprei dottore, solo poche parole pronunciate a fil di voce. -
Madama Chiarimbotto era inverdita: sembrava essere invecchiata di altri mille anni. Una mummia egizia fatta e finita, ecco cosa ricordava alla signora Paplova. Per quanto crudele fosse quell'esile vecchina, per Darina era tutta la sua famiglia. Aveva lasciato Mosca da più di vent'anni e sua madre da sempre. In quel momento, stordita dall'inevitabile che  sembrava avverarsi, lei era sinceramente preoccupata.
- Abbiamo un blocco. -, sentenziò il dottore interrompendo i pensieri della Signora Paplova.
- Un blocco? -
- Sì, e dei più consistenti, oserei dire. - 
Spostò gli occhiali sulla punta del naso, un gesto che in gioventù aveva certamente provato spesso davanti allo specchio.
- Qui. -
L'omino indicava serio il basso ventre della malata.
- Quando ha defecato l'ultima volta? -
- Ohhh proprio non lo so, non le conto, dovrei? - 
- Non sa? Non conta? Dovrebbe farlo, certo che dovrebbe. -
Scuoteva l'indice con estremo disappunto.
- Questo è grave, molto grave! - sospirava - Si ricordi: il benessere intestinale è tutto per le persone di una certa età!!! -
- Me ne ricorderò. – 
La nuora al solo sentir parlare di argomenti così intimi e sporchi diventava di sasso e perdeva il buon uso della parola. Avrebbe voluto essere ovunque, anche in guerra. E  credere che fino a qualche ora prima il suo problema più grande era una manciata di spiccioli spariti. 
Il medico salutò e categorico impose le sue condizioni: somministrare alla minuta Amanda Chiarimbotto  un beverone di dimensioni inimmaginabili e un clistere proporzionato.
- Santo cielo! - 
Non disse altro la Signora Paplova.
Armata di pazienza e anche di una discreta dose di coraggio sollevò le fini vesti della suocera. Chiuse gli occhi e attese l'urlo di dolore.
Silenzio.
Un rumorino sordo.
La cannula non passava: Madama Amanda era troppo contratta. Quella tortura non avrebbe avuto seguito, ma il supplizio dell’anziana era solo rimandato a mani più esperte.
Avvolta dalle note di Bach, Darina rimuginava sugli ultimi avvenimenti.
Altri 25 centesimi spariti. Forse stava impazzendo? Era da molto che non si dedicava a se stessa. Non si concedeva un’uscita, frivola, con le poche amiche che aveva saputo coltivare negli anni, da almeno dieci mesi. Quell'odore stantio e quell'atmosfera bigia le stavano corrompendo il cervello, fino a confonderla.
Che l'indomita vedova Chiarimbotto fosse giunta al capolinea? Che ne sarebbe stato di lei? Non voleva pensarci. Ma la testolina della Signora Paplova non la smetteva di creare scenari disastrosi e di ricorrere alla più folle fantasia per dare una spiegazione razionale a quello che stava accadendo.
"Un malvivente, un circense, un losco figuro si sta nascondendo nella nostra casa", schioccò il pollice e il medio, certa di aver trovato la soluzione. “Un’ ipotesi intelligente, perfetta.” Aveva trovato una spiegazione ai furti, ai fastidiosi rumorini notturni e anche all'inguaribile malattia della suocera. La vecchia era stata avvelenata. "Povera donna". Anche le frasi sconnesse che esanime questa borbottava si ammantavano di una solida verità. Il sonno le avrebbe portato consiglio e con una gioia inadeguata Darina si addormentò.
Così come era entrato, il litro di tisana pareva non essere uscito dal corpicino esausto di Amanda. La febbre non diminuiva e il battito del cuore era lo spettro di un suono un tempo vigile e possente.
- E' nascosto qui-, sussurrava la millenaria. Il collo le si irrigidiva e l'illusione di una fissità antica, tipica delle statue, la invadeva. - I soldi... -, continuava - I soldi...al sicuro ... i soldi ... -
Già! Stavano finendo anche quelli. Senza le indicazioni della suocera la Signora Paplova non poteva adempiere ai suoi compiti e ben presto sarebbero morte di stenti. Amanda nascondeva i suoi risparmi, nessuno sapeva dove. Era una casa dei primi dell'800, enorme, il luogo ideale per segretare qualsiasi cosa. Un tesoro o un ladro. O entrambi.
- Sembra peggiorare, dottore. -
- Capisco. -
- Crede che riuscirà a guarirla? -
Il medico alzò le spalle.
- Non sono Dio. -
- Pensa che, nel caso, le rotelle le torneranno a posto? -
- Come già detto, non sono Dio. -
L'aria, rarefatta, si condensava sui vetri e il sole, lama sbiadita, rendeva lo scenario solenne.
- I soldi, i soldi, i soldi. - 
Sapeva dire solo quello Madama Amanda.
- Mi dica cara, dove sono? - 
La signora Paplova lo aveva domandato con tenerezza, nel disperato tentativo di salvare almeno la sua esistenza.
- Al sicuro...i soldi... -
"Maledetta", avrebbe voluto strozzarla, tirchia e dispotica anche nella morte!
- Dovrò operare manualmente. -
Al dottore non interessavano gli screzi delle due donne, lui doveva agire e risolvere la questione.
- Come? - 
- Manualmente, nel retto. -
Il guanto dell'esperto era già oliato.
Il candido gridolino di Darina, non lo fermò. Né quello della paziente.
“Inguardabile, una violazione, una profanazione, quasi un sacrilegio. Al fine siamo animali e non angeli", sentenziò tra sé e sé la Signora Paplova.
- Ho il sospetto - imperturbabile - che sua suocera abbia una grave patologia psichiatrica. -
"Lo aveva dedotto dalle feci? forse i medici, dopotutto, sono veramente simili a Dio".
- Vede -, mostrando qualche monetina - sua suocera si crede un salvadanaio! -
Darina non si scompose. Ormai.
- Ma mi dica dottore...mi dica...è possibile fare un prelievo? -


Liberamente ispirato alla storia della mia bisnonna che sul finir della vita era convinta di esser un salvadanaio. Santa donna.

di Manuela Paric'



venerdì 26 luglio 2013

Blog Tour: Noemi Gastaldi


Un'intervista ironica e seria, a volte: è qui con noi ... l'illustre... l'unica ... la stramba ... la scrittrice ... Noemi Gastaldi. Mettiti comoda e preparati a lunghi momenti insopportabili! 



1. Benvenuta, un tea? sono giusto le cinque! Avevo pensato di chiederti chi sei, cosa fai e bla bla bla...ma poi, conoscendo quanto tu sia dotata di fantasia credo che potrebbe essere più divertente presentarsi giocando...quindi...rispondi e motiva i tuoi "perché". 
Se fossi un super eroe? Sarei Batman! Tra l'altro, nessuno ci ha mai visti nella stessa stanza... 
Se fossi un frutto? Una fragolina di bosco. 
Se fossi un colore? mmmhh... Nero? 
Se fossi un personaggio storico? Nefertari! (Mi dissero che le somiglio... O che somiglio alla sua mummia, ora non ricordo)
In chi ti reincarneresti? In uno scrittore ricco e famoso (magari anche bravo, va :) )
Se fossi un cattivo? Il diabolico barbiere di Londra ( si, lo ammetto, stasera ho una crisi d'identità sessuale :) )
Se fossi un animale? Un bradipo sonnacchioso
Se fossi solo te...come saresti? Questa è la domanda più facile... Sarei io U.U
Venendo a noi... Se ti dicessi i miei “perché” il gioco diverrebbe banale: così invece i lettori del blog possono sbizzarrirsi a decriptare le mie risposte :)

Furbina...troppo furbina...

lunedì 22 luglio 2013

C'è il mio silenzio.



Il silenzio comunica sempre. E' chiaro, risaputo e intuibile. 
C'è il silenzio della madre, spesso rigoroso di fronte alla figlia e rassegnato accanto al marito.
C'è il silenzio premonitore, quello che si respira in campagna prima di una catastrofe, prima del boato della terra che trema o delle onde che ti portano via.
C'è il silenzio quieto, dove i rumori sono tutti nella testa di chi sa ascoltare, è un silenzio simile ai sogni.
C'è il silenzio dell'attesa, lì nemmeno il tempo fa rumore. E non lo fa, che sia buona o atroce la sorpresa "fracassona" che si porta appresso.
C'è il silenzio omertoso, costruito sul falso rispetto e annegato nell'ignoranza, senza pietà.
C'è il silenzio imposto con la paura e le botte.
C'è il mio silenzio editoriale che è quasi un suono, una nota carica di aspettative, la prima di un concerto.
Il nuovo libro del signor Mocha è quasi terminato.
Shhhhhhhhh


di Manuela Paric'

mercoledì 17 luglio 2013

Fiabe minuscole: La cavalletta e la luna.

La cavalletta e la luna

V'è una cavalletta sul prato 
che lesta s'affretta a raggiungere il lago 
per saltar sulla luna.
Ed un balzo e un altro ed ancora e ancora,
finisce la notte
e la luna scompare 
e lungo la riva, 
la cavalletta 
a sognar di saltare. 
"Sarò più lesta domani", 
ripete a se stessa,
"non ho mai saltato invano", 
e nel riflesso si vide volare lontano.

Gennaio 2007

di Manuela Paric'

lunedì 15 luglio 2013

Un momento fa.

- Un momento fa era qua. Ne sono sicuro.-

Spostava cose, guardava sotto al divano, in continuazione. Alzava i cuscini e li rimetteva a posto. Aveva un che di trafelato che non era decisamente da lui, e qualcosa, evidentemente, non funzionava. Sembrava fuori di se. A tratti si calmava, poi riprendeva la solita frenesia, fino al successivo momento di pace.

- Ti starai sicuramente confondendo. Lascia passare qualche giorno...quando cercherai qualcos'altro salterà fuori.-

Phil era piuttosto certo che il suo amico stesse esagerando. Nulla avrebbe potuto giustificare una simile fregola, a meno che non si fosse trattato di qualcosa di veramente importante. Ma l'altro, lo sapeva bene, di cose importanti nella sua vita non ne aveva. Nemmeno una.

- Non dire sciocchezze!-, disse con fare sicuro,- Mi serve. Ora.-

L'amico lo guardò ridacchiando. Pensò che era quasi tenero, nel suo ricercare a tutti i costi l'importanza in ciò che sicuramente era solo una futile dimenticanza.

- Temo che non ti resti altro da fare che ricomprarlo, allora.-

L'altro quasi schizzò. Phil si ritrasse: per un momento pensò che volesse saltargli alla gola.

- Ma come diamine è possibile?! Te lo giuro, ce l'avevo in mano un istante prima che tu arrivassi!-
-Eh, ce l'avevi in mano e ora ce l'hai in cu- -Niente volgarità, per favore! Ho detto che era qua e qua deve risaltare fuori!-

Phil si arrese. Si accomodò sul divano e lasciò che l'altro perlustrasse al di sotto di esso per l'ennesima volta. Cos'era, la quarta? Sperò almeno che dopo ne sarebbe stato soddisfatto. 

- Senti, Jodi, sono due ore che stai rovistando ovunque. Dico, OVUNQUE! Giurerei di averti visto frugare anche in frigo quando sono uscito dal bagno. Cos'è, pensavi di averlo lasciato sotto due foglie di lattuga...qualunque cosa tu stia cercando?-
- No, lì avevo fame. Mi sono fatto un panino.-
- Un panino? Ma non ti ho visto mangiarlo.-
- Te l'ho detto, avevo fame. L'ho trangugiato.-
- L'hai trangugiato nel tempo che mi è servito per arrivare dal bagno alla cucina?-
- Ah-ah.-, annuì l'altro.
- Ma se avevi ancora la testa nel frigo quando sono arrivato in cucina io.-
- Embè? Guardavo se ci fosse qualcos'altro. Il panino non mi era bastato.-
- Non esser ridicolo.-
- Che c'è di ridicolo? Avevo fame.-
- Ma se avevi appena finito di mangiare. Eravamo assieme in mensa, ricordi? E già lì ti sei fatto fuori metà della scorta di cibo mondiale. -
- Eh, vedi? Non avevo finito il lavoro.-
- Che lavoro?-
- C'era ancora l'altra metà.-
-Ma come diamine fai a mangiare così tanto?-
- Sarà il nervoso.-

Mentre lo diceva aveva sollevato la suola delle scarpe. Cercò accuratamente anche lì, non nascondendo un velo di delusione dopo essersi accorto che non c'era nulla.

- Il nervoso per che cosa?-
- Eh, sai, la famiglia...-
-Tu non hai una famiglia.-
- Eh, appunto, sono preoccupato. Sarà ora che me ne faccia una, che dici?-
- See, al tegamino. Ma si può sapere che stai cercando?-
- Ma te l'ho detto prima.-
- Cosa mi hai detto?-
- Che l'avevo persa.-
- Cosa?-
- La pazienza. Andiamo, va'.-

Jodi uscì, facendo cenno di seguirlo all'amico, che lo guardava impietrito. Si tirò dietro la porta, ed esclamò:

- Ah, eccola!-
- Cosa?-

Jodi lo guardò con una faccia seria. Preoccupata.

- Oh, ma te non sei mica normale, eh! E' tutto il giorno che la stiamo cercando.-
- Che cosa?-
- Sveglia, Phil! La chiave! Se non chiudo la porta come facciamo ad andare al cinema?-

Ma a Phil del cinema non gliene fregava mica più nulla. Lui il suo film della giornata l'aveva già visto. Ora stava pensando a stampargli i titoli di coda sul culo.

di Fabio Postini

giovedì 4 luglio 2013

Altri racconti di altri: Il vicino sul treno #10 di Paolo Marcotti

#10
Alice è bionda, ha un vestito corto di quelli che si mettono solo d’estate, e delle forme che lo popolano, ma non troppo. Non forme da lussuria selvaggia, da temperatura rovente, da ansia di prestazione. Forme pacifiche. Forme da non possedere, forme regalo, forme patrimonio dell’umanità. Ti augureresti che quel vestito non ci fosse per metterti lì, in contemplazione, con quell’anima con cui si gode un tramonto al calare di una giornata memorabile. 
Alice ha anche due occhi verdi che rivolge a un punto imprecisato del paesaggio là, fuori dal finestrino, quasi davvero guardasse i gatti che guardano nel sole. Poi, d’un tratto, decide che il mondo non merita più la perfezione del quadro, e principia a mordersi nervosamente le unghie.
Alice ha una catenina che termina in un ciondolo. Non proprio un ciondolo. Uno di quei ciondoli tondi, fatti come uno specchietto, che si possono aprire e in una delle due parti puoi mettere una piccola fotografia. Prende, apre, dà un’occhiata, chiude. Guarda fuori. I gatti muoiono nel sole. Apre, consulta di nuovo l’oracolo, chiude. Guarda fuori. I gatti girano nel sole. Alice, col dito indice, percorre lentamente e con precisione il bordo del tondo dorato. Guarda fuori e cerca mollemente un’ispirazione.
Apre. 
Quel ciondolo non è quel che appare, questo pensiero si fa strada nella mia mente, e mi pervade anche il resto del corpo. Ci deve essere qualcosa di più, e adesso voglio scoprirlo, adesso voglio saperlo.
Chiude.
Alice ha trovato da qualche parte l’ispirazione, glielo si legge negli occhi. Lo sguardo è sempre rivolto verso un punto indistinto, ma non è più perso. 
Apre.
No, è qualcos’altro, per forza, non so cosa, ma so che sta per rivelarsi. E sarà una sorpresa. Magnifica, agghiacciante, imbarazzante, chissà. 
Chiude.
Si passa furtivamente la lingua sulle labbra. Il treno ha un brivido. Gli occupanti del treno hanno un brivido. I gatti nel sole hanno un brivido.
Apre.
Non può essere, eppure è così. Quel ciondolo non è un ciondolo. È l’organo genitale. Alice ce l’ha appesa al collo. La fica al collo.
Chiude.
Quasi impercettibilmente, l’accelerazione del battito si fa largo nel rumore del treno. Accompagnata da un leggero ansimo.
Apre.
Lo stupore prevale sull’eccitazione. Stupore non da baraccone. Stupore da prodigio.
Chiude.
Alice si sta lasciando andare. Entra in un’altra dimensione, senza treno.
Apre.
Sì, sta accadendo lì, davanti a me, davanti a tutti.
Chiude.
E tutto questo Alice non lo sa, o forse stavolta sì.
Apre e chiude.
L’accelerazione adesso è decisa.
Apre e chiude.
L’ansimo è distinto.
Apre e chiude, apre e chiude.
Percezione di caldo.
Apre e chiude, apre e chiude, apre e chiude.
Moti incontrollati.
Apre e chiude apre e chiude apre e chiude.
Gola strozzata.
Apre chiude apre chiude apre chiude apre chiude.
Salivazione.
Apre e chiude e apre e chiude e apre e chiude e apre e chiude.
Sudore.
Apre e chiude e apre e chiude, apre e chiude, apre chiude, aprechiude aprechiude aprechiude aprechiude aprchiude aprchiude aprchiude aprchiud, apre e chiude e apre e chiude, apre e chiude, aprchiude aprchiude aprchiude aprchiud aprchiud aprchiudaprchiudaprchiudeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeee… eeeeee… eeee… ee… e.

Io sono morto - Vera Q.

Oggi voglio presentarvi il nuovo libro di Vera Q.. E' un'opera alla quale sono particolarmente affezionata, me la sento un pochino mia: l'ho vista nascere capitolo dopo capitolo e ho esultato insieme all'autrice quando ha messo l'ultimo punto.

Vi lascio perciò con la mia prefazione "nonsense" e l'incipit di IO SONO MORTO.

Buona lettura.

Prefazione:

Si muore.

Si muore sempre, inesorabilmente e spesso malamente.
Non è un gran mistero. O meglio, lo è ma non del genere che si può svelare. O meglio, può farlo Vera Q. 
Immaginate un teatrino di provincia.

Immaginate una musica triste e un vecchio addormentato in platea. 
Immaginate che sul palco vi sia un salottino pieno di arazzi e polvere e lì, proprio lì, sotto arrugginiti riflettori incandescenti, la vostra bara.
Voi dentro, incravattati, impomatati, pallidi.
Non è bello, lo so, ma... provate, provate a immaginarvi.
State comodi? Non troppo, già.
La morte, a quanto pare, è una questione scomoda e per l'uomo, per come è fatto, per ciò che brama, non c'è morte che tenga: non si fa in tempo a piangere il proprio defunto che lo si rintraccia - ognuno al suo posto - sgambettante tra le nuvole o arso nell'eterno fuoco della perdizione!
Che gioia.
Vivo, ancora.
Ustionato forse, rimbambito a volte, ma vivo.
Quasi.
I più caustici diventano concime, si fanno mangiare dai cavalli e danno al corpo l’ultimo giusto peso.
Altri si perdon tra le stelle.
Fumosi.
Belle le stelle, la notte di San Lorenzo, quando ogni desiderio sembra realizzabile e quel cielo nero smette di far spavento. 
Invece... si muore.
Si muore sempre.
Rigidi, putrefatti o polverizzati: se tutto procede secondo i piani!
Non sempre, infatti, le cose accadono come le sogniamo. Ci si potrebbe ritrovare smembrati in una doccia, spugnosi nel profondo del mare o, peggio ancora, imbalsamati in un museo alla mercé di turisti curiosi.
Che scempio!
Il destino che Vera Q. ha riservato ai suoi protagonisti è peggiore.
Se, come diceva il filosofo, la verità è una costruzione mentale, allora il dolore, l'oblio e ogni genere di aberrazione sono il prodotto delle nostre paure: l'arte del contrappasso.
Benvenuti.

di Manuela Paric'


Estratto (incipit)

1. Risveglio

C’è una finestra, una soltanto.
Piccola, rettangolare e posizionata a bordo del soffitto.
Il chiarore in questa stanza non è il benvenuto ed è per questo che è stato confinato, con convinzione, dietro una spessa vetrata opaca.
Le squallide pareti della camera, così come il pavimento in marmo, rifrangono le gelide luci affettate dei neon: un luccichio impersonale, imperturbabile, al quale nessuno s’affeziona.
Alcune sedie, disseminate senza criterio, s’alternano a vasi di acciaio che rigurgitano fiori, e sul lato sinistro del locale, inamovibile, una panca di formica sorregge quattro persone.
Mia moglie Barbara e mia figlia Giada ne occupano lo spazio centrale; Luca, mio fratello, e mia madre Carla sono invece schierati agli antipodi.
La mia dolce metà mi fissa con gli occhi sgranati: imbambolata, attonita e, sopra ogni cosa, incredula. La mia piccina è saldamente avvinghiata alla nonna che le carezza il capo con fare amorevole. Ed infine Luca, accanto a Barbara, punta con testardaggine l’uscio spalancato sul corridoio.
Io, al contrario, sono l’anima della festa e domino il miserevole ambiente torreggiando al centro del vano.
E no, quando mi riferisco all’anima, non mi esprimo per metafore.
Io sono quello ubicato nella branda di legno.
Io sono quello giacente.
Insomma, per farla breve, io sono quello morto.

Di Vera Q.

Per acquistare il libro (ebook) su amazon: Io sono morto

mercoledì 26 giugno 2013

Feste dei bimbi

Rebecca ha 4 anni. Rebecca va alla festa del suo ex asilo. Rebecca saluta le maestre. Le maestra salutano Rebecca. Rebecca ricorda le maestre. Le maestre ricordano Rebecca. Rebecca è cresciuta. Le maestre no. Rebecca si guarda intorno. Rebecca osserva i vecchi piccoli amici. Rebecca scoppia a piangere. Rebecca dice:<E' la malinconia del tempo che passa>. Rebecca ha 4 anni.


di

Manuela Paric'

martedì 25 giugno 2013

Blog Tour: Simone Lari


Intervista a Simone Lari: un autore che osa mescolare thriller e fantastico...Benvenuto!

1. Facciamo un gioco? invece della solita biografia...considerando il fatto che tu scrivi romanzi che hanno una componente fantastica... che ne dici di descriverti come se fossi un personaggio dei tuoi libri? O se preferisci inventando una mini storia su te stesso? 

In realtà la mia storia è più lunga di quanto sembri… Sono nato nel lontano 1378, ho avuto l’investitura da Cavaliere Arcano, ho combattuto contro la Nemesi dei Mondi, assistito alla fine dell’Ombra della Morte, è ho reclamato il ritorno di ciò che amavo di fronte al volto severo del Dio Sion. Poi, in tempi moderni, mi sono reincarnato, ma la mia amina si è divisa in due parti, e ha dato vita a due versioni di me totalmente opposte: da una parte sono diventato Derek, uno studente un po’ nerd, con la fissa per i romanzi epic fantasy, che ha avuto la “fortuna” di acquisire dei super poteri che hanno fatto di lui, o meglio, di me, Nameless, rendendomi possibile combattere per la giustizia, come facevo un tempo (anzi, un po’ peggio). Dall’altra parte, però, sono diventato Kage Queen, un uomo oscuro, misterioso, nella cui porzione di anima aleggia solo un misero, flebile, barlume di luce racchiuso nell’ombra. Lui ha acquisito la parte più terribile di me: la rabbia, la determinazione senza rimorso, l’influenza oscura della Perla del Potere, questo gli/mi ha conferito dei poteri paranormali. L’unica cosa buona che ha preso dal vecchio me, è l’amore per i gatti.

Io sono circondata dai gatti, probabilmente sono alieni. . .si comportano da alieni, saltano come salterebbero degli alieni. . . sicuramente stanno tramando qualcosa. . . e loro. . .ci vedono bene anche al buio, miao!

2. Quali sono i timori e le difficoltà che incontri durante la stesura di un romanzo?

Nessun timore, e grazie a valide collaboratrici, nessuna difficoltà.

Che culo! Io invece annaspo dentro ogni insicurezza.

CONTINUA A LEGGERE...

mercoledì 19 giugno 2013

Giorni difficili e facile ironia.

Certi pomeriggi sono particolarmente difficili.
Mia figlia va in bagno.
Passano 5 minuti.
E' chiaro che non è pipì.
Mi chiama per pulirla.
Vado.
Mi chino, sorrido e un mollettone rosa che mi aveva incastrato malamente tra i capelli cade nel gabinetto. Ovviamente pieno.
Ecco.
Lei urla.
Io prendo le pinze da fritto. <disgustoso>
Non posso abbandonarlo alla corrente.
Non posso.
Sembro un chirurgo.
Evito lo stronzo.
Aggancio il mollettone.
Mi muovo lentamente.
Ce l'ho quasi fatta.
Ricade, rimbalza sul "fattaccio".
Ogni cosa sembra perduta, sfaldata, distrutta.
Lei urla, ancora.
Mi odia.
Io,
odio tutte...le merde.

Blog Tour: Martina Munzittu




Oggi vi presentiamo Martina Munzittu ... una romantica donna del mistero!
BENVENUTA!

 Ciao Martina, benvenuta è un piacere ospitarti sul mio blog. Iniziamo subito...che ne dici di presentarti...ma in modo romanzato...come se fossi la protagonista di un tuo romanzo? (non rispondermi NO! hehehehe) 

Ciao Manuela e grazie a te per avermi ospitato nel tuo blog! Presentarmi in modo romanzato? Proviamoci. Quando Martina salì su quell’aereo diretto a Londra, si lasciò dietro le spalle un mondo di sole, calore, mare e amici. E mentre osservava le nuvole da quel finestrino, si chiedeva che cosa avrebbe trovato in quella terra straniera, dove non solo non parlavano l’italiano, ma neanche il sardo. In tutti i casi, aveva senso guardarsi all’indietro? No; ormai la scelta era fatta, il futuro non poteva che esser ricco di esperienze nuove e interessanti

Perfetto...ma ora ti toccherà continuare...vogliamo sapere come prosegue la storia!

Sei un'italiana che scrive in lingua inglese...come mai questa scelta? 

Ho vissuto in Inghilterra la maggior parte della mia vita da adulta, parlo l’inglese per il 90% del tempo in famiglia, a lavoro e con gli amici. Aveva molto più senso per me scrivere in inglese che in italiano. Anche perché non sono mica sicura di parlarlo bene (l’italiano, intendo). 

Incredibile...io, timidissima ed ignorante,...al massimo posso scrivere storie in cui "the cat is on the table"!!!

martedì 11 giugno 2013

Altri racconti di altri: Il vicino sul treno #9 di Paolo Marcotti

Un racconto diverso, inquietante, onirico. Uno scritto che in qualche modo mette a disagio.

#9
Il tipo è finocchio, si capisce subito. 
Ci sono quelli che si vantano di saperli individuare dal minimo indizio, quando proprio non lo diresti mai. Ecco, tranquilli, stavolta non serve la vostra consulenza, ce ne siamo accorti tutti.
Che poi è una conclusione tirata un po’ così, per sommi capi. Quali siano i suoi gusti e le sue preferenze sotto le coperte, o anche altrove, non è dato sapere. Piuttosto, i suoi movimenti, i suoi abiti e soprattutto gli accessori sono dotati di una femminilità, per così dire, accentuata. Il foulard, il mocassino di vernice, la borsetta di pelle, un’altra borsa col pranzo o quant’altro utile per la giornata, gli abbinamenti studiati certamente sin dalla sera prima, quella cadenza un po’ strascicata e petulante nel parlare. È tutto lì, a tiro sicuro di vista e udito. Il resto, è inferenza.
Qualche volta chiacchiera, quando qualche collega di fermata è disponibile. Non sempre succede, perché spesso si dorme della grossa. Tra i pendolari il sonnellino ristoratore è molto diffuso. Si recupera come si può, e spesso si finisce per considerare con disapprovazione chi disturba questa consolidata usanza. Ma non per cattiveria, per incredulità. Non vedi che dormiamo? Non ti sembra che il treno sia fatto apposta per questo? Come fai a non capire?
Romeo non è giovanissimo e si fa spiegare il funzionamento di qualche diavoleria tecnologica che possiede probabilmente a seguito di un regalo poco azzeccato, e poco gradito. Ma oggi, inaspettatamente, chiede qualcosa anche a me. E il contenuto della richiesta è del tutto inatteso. Mi spiega che, per lavoro, visita ristoranti, enoteche, agriturismi e simili. Prova, assaggia, li valuta, scrive recensioni. Oggi tocca a un posto carino, tranquillo e isolato nella campagna, ma facilmente raggiungibile. Romeo conosce già il titolare, e aggiunge, come argomento decisivo, che si può senz’altro andare in due, suoi ospiti, e che ci attende certamente un’esperienza di raffinata qualità.
Non mi sento affatto insidiato, e accetto di buon grado. 
Veniamo effettivamente accolti con tutti gli onori e fatti accomodare in un bellissimo giardino, con pochi tavoli disposti sotto ombrelloni superflui perché già così la penombra è eccessiva. Non c’è nessuno, tranne una figura maschile, sola, che dà le spalle, apparentemente molto distinta ed elegantissima, in un tavolo ancora più allo scuro del nostro. Ci viene servito un aperitivo, un vinello leggero e delizioso, e qualche piccola leccornia da stuzzicare, di sapiente fattura.
Romeo, per discutere, almeno credo, della scelta dei piatti da servire, viene chiamato in cucina dal titolare, e io rimango solo. O meglio, forse preferirei rimanere solo, perché l’altra presenza mi pare ora improvvisamente inquietante e ingombrante. 
Tento di non pensarci proseguendo con degli assaggini sempre più gradevoli, ma vengo presto interrotto. La voce dall’ombra sempre più scura, quasi buia, mi chiama e mi propone, o forse mi chiede – non capisco, inizio ad agitarmi – compagnia. E adesso no, proprio no, non ne sono lieto, perché ha proprio quel tono con cui l’orco o la strega si rivolge nelle favole ai bambini, quella finta benevolenza che nasconde progetti indicibili e delittuosi. 
Tuttavia non vedo né spazi di rifiuto né margini di trattativa, e mi sento anche un po’ irragionevole nel mio timore. Mi avvio perciò verso il suo tavolo, non troppo velocemente, perché davvero non mi va, ma nemmeno troppo lentamente, ché non voglio darlo a vedere. Mi dico mentalmente “Su, dai, muoviti, che vuoi che sia”, e ad ogni passo il piede destro non si solleva bene e trascina rumorosamente un po’ di ghiaietta. 
Purtroppo, a dispetto di un largo sorriso che vorrebbe essere rassicurante, vengo accolto da un volto che mi inquieta ben oltre ogni mio precedente pessimismo. Una sorta di mascherone raccapricciante, un incrocio tra una mostruosa gargolla, un ceffo da ritratto medievale e… non lo so. Chi più tratti orribili conosce, più ne metta. 
Mi indica con bel gesto dove devo accomodarmi e mi approccia cordialmente, ma io non posso che mettermi in punta di sedia, col corpo teso e rigido, potenzialmente pronto a scattare… ma in realtà paralizzato. Nessun segnale, un rumore vitale qualsiasi, arriva da altrove, il giardino pare essere diventato la nostra oasi privata. Un’oasi che sa un po’ troppo di trappola, però.
Mi parla, come se fossimo intimi, o forse come se non ne avesse potuto parlare con nessuno prima, della sua condizione sfavorevole, di come sia impossibile la vita con un aspetto come il suo. Eppure, rifletto io tra me e me, nonostante riesca a marchiare un’esistenza l’aspetto non è che una maschera che ci rende facilmente riconoscibili, la sostanza è altro. “Esatto, una maschera!”, riprende lui, come se avessi parlato ad alta voce, eppure sono certo di non averlo fatto. “Ma non è detto che, togliendo la maschera, sotto si trovi qualcosa di meglio”. A queste parole mi sento inspiegabilmente e irresistibilmente forzato ad alzarmi e avvicinarmi a lui, non posso opporre resistenza nonostante mi sembri evidentemente una mossa illogica e imprudente. Quando sono abbastanza vicino, mi afferra un braccio, dirige la mia mano verso il suo collo, e mi costringe, prendendola da sotto il mento, a strappargli quella che si rivela davvero essere una maschera.
Viene via come una seconda pelle e sono diviso tra un’insana curiosità di scoperta e l’esigenza di chiudere gli occhi perché tutto premonisce che non sarà nulla di gradito e di gradevole. Infatti, a poco a poco, viene alla non-luce un volto completamente informe e privo di lineamenti. Non è meglio dell’orrore precedente, anzi, è ancora più spaventoso, almeno in quelle circostanze, almeno per me. Sono terribilmente angosciato, e sono lì lì per urlare, per scappare, per farmela sotto, non lo so nemmeno io.
Allora… allora basta. Plin plon. “Prossima fermata B., stazione di fine corsa del treno”.
Romeo mi guarda beato. Innocente no, non direi, piuttosto soddisfatto… quasi consapevole del bel tiro che mi ha giocato. Resto seduto ancora qualche momento, ora non posso alzarmi. Cerco di placare il batticuore, mi tiro su sostenendomi con le mani, mi avvio per il corridoio cercando di dissimulare l’ansia. Perché mi vergogno, ma anche per auto-rassicurarmi. Adesso ho fretta, ho bisogno d’aria, premo su chi mi sta davanti, fremo. Maledizione, fate presto! Appena posso scendo. L’aria è fresca. Respiro. Mi sembrava di non farlo da tanto.

domenica 9 giugno 2013

Rubrica: dalla cronaca ai mini racconti 17

Titolo di giornale: Precipita dal balcone, è grave.

e questo il mini racconto...più desolante e meno grottesco del solito...

Tutto attorno la vita non era poi così male. Tutto attorno ma non sopra la sua testa, dentro la sua testa, fra le pieghe dei suoi pensieri, dietro i suoi desideri, sotto chili di sogni inespressi. Non c'erano nemmeno quelli, i sogni. Pesavano e basta, senza manifestarsi. Le parole, le ore, gli avvenimenti si muovevano lentamente davanti agli occhi e sotto i piedi: non riusciva a fare niente. Seduto, appoggiato con il culo grasso sul divano sperava sempre di trovarvi sotto una mina e di esplodere, deflagrare verso una nuova prospettiva: spinto, acceso. Ci provava a volte a sentirsi bene. Si alzava in piedi, evitava di guardarsi allo specchio, dilatava le pupille, allacciava le scarpe da ginnastica e si diceva pronto ad uscire. Non lo faceva, non lo faceva mai. Fuori il sole lo aveva già stancato. Allora ricordava un tempo lontano in cui l'aria sulla pelle gli dava ancora piacere senza farlo sentire imprigionato, costretto in uno spazio non suo, osservato. Ricordava un tempo lontano in cui il mondo, seppur poco, gli assomigliava. Il problema era proprio quello: non si somigliava più. Chi era? Non si era svegliato scarafaggio ma s'era evoluto, giorno dopo giorno, battito dopo battito. Che schifo. Diventato ormai altro da se capiva di non aver più alcuna facoltà di decidere, di prendere la situazione in pugno e cambiare la sua storia. Attendeva, scioccamente, desolato, attendeva lo scoppio. Il boato di una arteria spezzata, il silenzio di un cuore arrestato, la fine. Le persone gli gravitavano attorno più simili a fuochi fatui che a vere comparse e lui rispondeva da grande attore, si faceva corporeo e si palesava, in quel banale intreccio di sorrisi e lamentele richiesto dal bon-ton dell'esistenza. Così, quando in un ultimo atto di coraggio prese il volo dal quinto piano, tutti pensarono ad una perdita momentanea di coscienza, ad un inciampo. Che pena. "Date almeno i miei resti al cane", questo pensò cadendo, proprio questo.

di Manuela Paric'

sabato 8 giugno 2013

Rubrica: dalla cronaca ai mini racconti 16

Titolo di giornale: Cadavere di donna rinvenuto in mare.

ed ecco il mini-racconto inerente:

Ogni coscia pesava 50 kg, tutto il resto meno, soprattutto il cervello, dicevano. Attaccata al mento, unta e rossiccia si allungava una barbetta incerta. I pori erano grossi e lui sudava anche solo a pensare. Molto. Dalle narici usciva aria calda e densa, come un animale da stalla, le usava per sottolineare i vari stati del suo umore. Il colore degli occhi non aveva importanza: li teneva stretti e meschini. Quasi nessuno lo aveva mai sentito parlare. Il fatto che avesse undici anni, credevano in molti, lo salvava dalla galera ma lo esponeva in modo crudele alle brutture della vita, di cui lui - certamente - faceva già parte da un pezzo, il pezzo forte.
La madre, una donnina poco più grande di un suo polpaccio, lavorava 20 ore al giorno, si lavava poco e dormiva solo per sopravvivere. Come aveva potuto partorire una tale anomalia? Questo e solo questo si chiedeva la gente ogni qual volta la notava trascinarsi stanca verso casa. Come aveva potuto? La realtà era cosa semplice: il destino di Gigio il gigante era già scritto nel suo profilo tondo, nei suoi calli prematuri e nei pensieri altrui. Sarebbe diventato un mostro, uno di quelli che ammazzano per divertimento, che ti schiacciano come si fa coi ragni. La maestra a scuola nemmeno lo interrogava tanto era convinta del suo futuro. I bambini invece, quando serviva, lo mettevano in porta, lì era una sicurezza: faceva ombra come un baobab e niente e nessuno passava, né giocatori, né pallone, né insulti.
Gigio il gigante viveva la sua esistenza scivolando, senza grazia, sul tempo: era quello che era e tanto gli bastava. Si preparava da mangiare, si lavava i vestiti e si augurava la buona notte. Controllava che la madre respirasse e quando tutto era fermo si dedicava a se stesso: costruiva aeroplanini di carta. Ne faceva di enormi, di veloci, di colorati, di incostanti. Li calcolava tutti, li disegnava, li progettava. Aveva un quadernetto pieno zeppo di numeri e note sull'aerodinamica. Volava, Gigio il gigante sulle coscione mai stanche della sua fantasia. Era pur sempre un bambino e quello gli era rimasto: il volo. Ciò che non sapeva è che i sogni, a volte, fan brutti scherzi, proprio come le persone cattive. Aveva trovato un cartone rugoso, spesso e nero. Duro come la lamiera di un camion e sufficiente per costruire un modello di aereo adatto ad una persona in carne ed ossa. Lo avrebbe portato sulla scogliera per farlo andare, sicuro, incontro all'orizzonte.  Nascosto e vivo, tra le pagine di formule, coltivava la speranza. All'alba di un giorno nuovo si intrufolò nella stanza della madre e, senza svegliarla, la portò via. Sarebbe stata la prima a fuggire nel vento. La prima a salvarsi. Lui, in fondo, aveva solo undici anni, poteva aspettare. La adagiò sul seggiolino di carta, le diede un bacio e spinse, spinse, fino a vederla volare, leggera. Si librava nell'aria, dritta contro il sole. Gigio il gigante, la guardava sparire, felice. Lontana dal lavoro, dalle malelingue, da lui. La osservava planare dolcemente, puntare verso il mare. Piaceva il mare a sua madre. Poi...non la vide più. Mai più.

di Manuela Paric

lunedì 3 giugno 2013

IL ROMPIBALLE - Poesia scritta all'età di 6 anni.

Rispolvero un mio grande classico. Avevo 6 anni, un amico dei miei genitori veniva spesso a trovarci costringendoci, a volte, a rimanere in silenzio fingendo di non essere in casa...eravamo stremati.

IL ROMPIBALLE

Il rompiballe è uno che DOMANI è qui
e che DOPODOMANI è ancora qui.

Manuela Paric', 1981

venerdì 31 maggio 2013

Altri racconti di altri: Il vicino sul treno #8 di Paolo Marcotti

#8
Jennifer sale sul treno tutte le sere, alla stazione di P. Nei giorni in cui torno a casa tardi è una presenza fissa e puntuale. Non rassicurante, anzi, vagamente sinistra.
È impossibile non notarla. La sua vistosissima chioma vigorosa e indisciplinata la precede, la distingue, la segnala, e l’effetto è perfino più efficace di quello delle aureole luminose sulle statue di Padre Pio o della Madonna. Jennifer è magrolina e non ha il fisico per portare a spasso un simile rigoglìo della natura, nemmeno per dissimularlo un po’, ma non è solo una questione di esilità. La chioma la domina, la schiaccia, prende il sopravvento e il resto sono briciole sul marciapiede del binario. È sul punto di soccombere ma non si dà per vinta: a volte arriva coi capelli lisciati, da una forza evidentemente non terrena. Lo sforzo però è vano, e l’effetto grottesco, quasi patetico.
Ma Jennifer non conosce arrendevolezze e deve mostrarsi, e dimostrarsi, di avere altre frecce capaci di andare a segno, quante ne vuole. Spesso tenta la metamorfosi, una surreale trasformazione in una sorta di essere a metà tra una cerbiatta e Heidi con un trucco molto, troppo pesante. Ma non è una festa in maschera e l’accoglienza del popolo pendolare del binario 2 è antartica.
L’arma migliore di Jennifer però è il guardaroba. Soluzioni tessili inedite, abbinamenti arditi, abitini così originali da far venire l’idea che sia lei stessa a pensarli e realizzarli. Spesso sono sorprendentemente corti e li indossa anche se fa freddo. Lasciano in mostra due gambe ancora da bambina e chi guarda lo fa con curiosità perplessa e asessuata.
Ma non importa, a Jennifer l’attenzione maschile non interessa. Sta in disparte con fare pudico e privatissimo, non propone né ispira desiderio. Non è lì per quello. Si direbbe che stia piuttosto perseguendo un suo obiettivo, una sua coerenza.
È sempre tremendamente occupata con il suo smart phone ultimo modello. Parla e chatta con le amiche con un po’ di supponenza, e il suo divertimento è misurato e annoiato. Ascolta in cuffia con esagerato entusiasmo musica finto-indipendente che le ha passato un amico che lavora in una radio locale. Un solidissimo muro marca il confine tra lei e il mondo degli altri pendolari, che agli occhi del suo granitico isolamento non hanno alcun valore e nessuna possibilità di trasmetterle quel calore che lei non cerca più, certo non adesso, certo non qui.
Jennifer fa l’estetista in una cittadina di provincia incomparabilmente stretta rispetto alle sue robuste ambizioni maturate sulle riviste di moda, per la sua educazione militarmente impostata sul rigore di Vogue. Jennifer sogna ad occhi non sempre aperti Milano, le sfilate, gli aperitivi, i locali con certa gente che ha in mente lei. Lì sì che sarebbe finalmente dove merita, come merita. Con le amiche ne parla spesso, quasi sicura di non essere compresa, e scarta, senza capacitarsi del loro osare, intimiditi pretendenti di paese, sempre meno numerosi.
Jennifer un giorno non molto lontano si licenzierà con impaziente e inadeguato orgoglio e andrà a Milano, a far capire e vedere a tutti chi è e quel che sa, a bussare a certe porte, non tutte, non è una disperata qualsiasi, solo quelle giuste. Questo pensiero è per lei pane quotidiano, armonia perfetta, fede incrollabile, fiero appetito, gustosa lussuria. Non le serve altro e le banalità di questa vita nel frattempo sono solo un incidente di percorso, una fastidiosa scocciatura.
Ma anche Milano attende Jennifer con gusto. L’ha sentita annunciarsi col suo profumo rivelazione dell’ultima stagione. La divorerà in un solo boccone e la digerirà con un piccolo singhiozzo. Per un bel rutto, ci vuole ben altro.

sabato 25 maggio 2013

Blog Tour: Giulia Beyman!




Giulia Beyman: una scrittrice con il Mistery nel sangue.
Conosciamola insieme!


Ciao Giulia, parlami di te, scegli da dove iniziare...è questo l'interessante!


Beh... allora ne approfitto per togliermi una curiosità, cara Manuela. Perché mi chiedevo se anche il tuo Signor Mocha ti desse gli stessi problemi che mi sta dando la mia Nora. Anche lui ti segue mentre vai a fare la spesa, prendi i bambini a scuola, paghi le bollette, prepari la cena, e persino a fine giornata, quando sei stravolta e non vuoi che dormire?... Anche tu ti ritrovi a parlare con lui e a doverti giustificare perché non ti stai dando abbastanza da fare con la nuova storia che lo coinvolge? Perché mi sta venendo il dubbio (o la speranza) che questa 'invasione di campo' possa essere un problema di tutti i protagonisti seriali. Entrano nelle nostre vite e finiscono (positivamente) per stravolgerle...

Cara Giulia, Mocha mi tormenta!Flemmatico, ansioso, riflessivo ha sempre delle richieste...ieri, per esempio, mi ha chiesto un cappello!

Cosa significa per te scrivere noir, giallo, thriller (scegli quello che più ti rappresenta)?
Per i miei libri userei il termine 'Mystery'. Nelle mie storie c'è un mistero da scoprire. Mi interessa che ci sia tensione e che il lettore si chieda come andrà a finire l'avventura dei miei protagonisti. Ma ancora di più dell'intreccio mi intriga seguire gli effetti di questa'caduta negli inferi' dei miei protagonisti. Mi piace coglierli in una situazione di estrema difficoltà, in un momento in cui le loro certezze sembrano volatilizzate... quel tipo di momenti fondamentali per la crescita e per il cambiamento.
E se al mistero riesco ad aggiungere anche un pizzico di 'rosa', non mi dispiace affatto.


Quello che invece scrivi tu, cara Manuela, se non sbaglio, è il classico 'Whodunit'... Anche tu sei un'appassionata di gialli...

I tuoi personaggi devono temerti! Nasconditi NORA!!! Non conoscevo questo tuo lato sadico...heheheh... Devo confessare, però, che anche i miei "attori" non se la passano bene: dici che è un vizio degli scrittori? Odiamo, amiamo, facciamo come gli Dei?

I miei scritti sono gialli d'atmosfera, intrecci atipici dove le emozioni ed i pensieri dei protagonisti sono al centro del racconto, lo strutturano in ogni parte. Polizia, indagine tradizionale, rilevamenti scientifici...sono sullo sfondo, sfumati...